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sul serio. Né Pieretto né Oreste mi dicevano tutto di sé. Per questo mi piacevano. Le donne, quelle che separano, sarebbero venute piú tardi. Per adesso parlavamo soltanto di questo mondo, della pioggia e del sole, e tanto ci piaceva che andare a dormire ci pareva di perdere davvero tempo.

Una notte di quell’anno eravamo in riva a Po, sulla panchina del viale. Oreste aveva borbottato: — Andiamo a letto.

— Accúcciati lí, — gli avevamo detto, — perché vuoi sprecare l’estate? Non puoi dormire con un occhio solo?

Oreste, appoggiato sulla guancia alla spalliera della panchina, ci guardò di sottecchi.

Io dicevo che in città non si sarebbe mai dovuto dormire. — È sempre acceso, sempre giorno. Bisognerebbe far qualcosa ogni notte.

— È che siete ragazzi, — disse Pieretto, — siete ragazzi e siete ingordi.

— Tu cosa sei? — dissi, — un vecchio?

Oreste saltò su d’improvviso: — I vecchi, dicono, non dormono mai. Noi giriamo di notte. Vorrei sapere chi è che dorme.

Pieretto ghignava.

— Cosa c’è? — dissi cauto.

— Per dormire ci vuol prima la donna, — disse Pieretto. — Ecco perché né voi né i vecchi non dormite.

— Sarà, — borbottò Oreste, — ma casco dal sonno lo stesso.

— Tu non sei di città, — disse Pieretto. — Per la gente come te la notte ha ancora un senso, quello di una volta. Sei come i cani da pagliaio o le galline.

Erano le due passate. La collina, oltre Po, scintillava. Faceva fresco, quasi freddo.

Ci alzammo e risalimmo verso il centro. Io rimuginavo la strana abilità di Pieretto a mettersi sempre con le spalle al sicuro, e farci dire che eravamo degli ingenui. Né Oreste né io, per esempio, perdevamo troppi sonni pensando alle donne. Mi chiesi una ennesima volta che vita poteva avere fatto Pieretto prima di venire a Torino.

Sulle panchine dell’aiuola della Stazione, sotto l’ombra scarsa di quegli alberelli, dormivano a bocca aperta due pezzenti. Scamiciati, capelli e barba ricciuti, sembravano zingari. Ci sono i cessi a pochi passi, e per quanto la notte sapesse di fresco e d’estate,


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