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— L’avete aperto un momento fa, — dico al carabiniere ridendo. — C’è poca luce, questo è vero.

Lui mi guardava con gli occhi sottili, sotto la luna. — Dovete denunciare lavoro e residenza. Al piú presto.

Poi si staccano, e a tre passi ci dice ancora: — Buona notte.

— Buona notte, — fa l’altro.

— Buona notte, — diciamo noi, e scolliniamo. Talino adesso scherzava. — Sei andato a scuola, — diceva, — per finire in prigione come un vagabondo?

— Sono loro che ti hanno impacchettato? — gli faccio. — Sta’ attento.

Lui parlava già d’altro. — Domani andiamo a cercar Ginia.

Io ero stanco da non alzare piú i piedi, e pensavo a quei disgraziati che dovevano perlustrare tutta la notte per dei dritti come Talino e come me. Li vedevo salire e scendere per quelle colline, di giorno e di notte. Anche loro, che vita; e magari un bel giorno pigliarsi una schioppettata da qualcuno piú ignorante degli altri. E tutto perché a un bue come Talino piaceva dar fuoco alla casa di un altro.

— No, che non ci vengo, — gli faccio. — Delle tue grane ne ho abbastanza.

Nel cortile troviamo Vinverra, che spunta da sotto il portico, fatto su in un mantello, e ci dice con la voce piú tranquilla del mondo: — Ha piovuto sul letame.

— Sí, ma io ho sonno, — gli faccio.

— Vieni a bere una volta, — mi dice Talino. — Scalda lo stomaco.

Beviamo in cucina, allo scuro, dalla solita bottiglia. Talino mi fece bere per primo. Di sopra sentiamo il bambino che piange e l’Adele che canta sottovoce e gli parla. — Non ce n’avete del salame? — gli dico, — qui si mangia soltanto minestra?

— Tra un’ora è giorno, — dice Vinverra, — domani c’è il coniglio. Andate su.

Ero tanto stanco che, dormendo, mi pareva di cadere in un pozzo, e sopra si sporgevano Talino Gisella Pieretto tanta gente; io cadevo, cadevo sempre, mi pareva di cadere tutta la notte. Ero diventato vigliacco come non so cosa, e mentre cadevo allungavo la mano sotto per sentire se c’erano dei rastrelli piantati sul fondo.


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