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mostrandomi la cima col dito. — Noi stiamo su quella in faccia.

A parte l’aria del finestrino, c’era di bello che, infilate le colline, viaggiavamo all’ombra. Le foglie sventolavano a due dita dal treno. Poi sento che rallenta rallenta e si ferma sotto un picco. — Cosa è successo? C’è qualcuno sulla linea? — Siamo arrivati, — mi grida Talino.

Lo diceva lui, ma invece ci toccò metterci a piedi per una strada dove si pigliavano storte tant’era la polvere, e Talino si ferma su un paracarro e si leva le scarpe e rimbocca i calzoni, dicendo: — La polvere te le mangia — . Le calze non le aveva. Lega le scarpe per le stringhe e se le butta a tracolla. — E dov’è Monticello? — gli chiedo. — Di qui non si vede — . Avevamo dietro la testa una collina, bassa come una casa. La nostra strada un po’ saliva e un po’ scendeva, e mi volto a guardare la collinetta e gli dico: — Dov’è il mammellone? — Questa, — dice Talino. — Ma se prima sembrava una montagna! — Noi andiamo sulla collina in faccia. Di là vedrai che è una montagna.

Mi guardavo bene intorno, per sapere all’occasione ritornare e saltare sul treno. Ma treno, ferrata e stazione, era tutto sparito. — Sono proprio in campagna, — mi dico, — qui piú nessuno mi trova.

Cammina e cammina per quella bassa, cominciamo a vedere dietro le piante una collina che cresce. — È ancora lunga? — Meno male che il sole calava e pigliava di fianco le gambe di Talino e i paracarri e la polvere, e le indorava, come i fari di un’auto di notte. Poi usciamo dalle piante e si vede un collinone tutto vigne e cascine e boscoso, e pelato sulla punta.

— Dov’è Monticello?

— Da casa lo vediamo. È sul fianco della mammella, — e, dicendo, gli scappa da ridere. Mi volto e rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta. E Talino rideva dentro la barba, da goffo, come se fosse proprio davanti a una donna che gli mostrasse la mammella. Scommetto che non ci aveva mai pensato.


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