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la poesia epica in roma 205

l’Iliade, quali li abbiamo. Ma certo quali li abbiamo non sono essi quali un aedo, se uno fu, li costrusse da principio: in essi è certo l’opera dei ῥαψῳδοί, col qual nome intendiamo appunto i cantori, non più αὐτοδίδακτοι, non più pieni la mente di oimai d’ogni specie seminatevi dalla Musa, ma di canti altrui e specialmente dell’Iliade e dell’Odyssea.

Il perchè del loro nome e il modo della loro arte si può, non dico desumere ma imaginare, da un leggendario «Contrasto di Homero ed Hesiodo». Al funerale di Amphidamante, re dell’Euboea, convengono in Chalcide chiari personaggi, non solo in forza e prestezza ma anche in sapienza, a un agone: tra gli altri Hesiodos e Homeros. Sedevano gravi giudici i più illustri de’ Chalcidesi e Paneide, il fratello del morto. Si fa avanti l’aedo d’Ascra, e interroga:

O Melesigene Homero, che sai da’ Celesti le cose
O mi di’ sulle prime: che è pei mortali il migliore?

E l’altro rispondeva:

È per il primo ai terrestri non essere nati il migliore;
Nati, poi, quanto più presto passare le porte dell’Ade.
hesiodo
O mi di’ pur codesto, ai Celesti simile Homero,
Che credi tu che al mortale il meglio nell’animo sia?
homero
Quando la gioia e la pace nel popolo domini tutto,
Quando i convitati ascoltino in casa l’aedo,
L’un dopo l’altro seduti, e presso, le tavole piene
Siano di pane e di carni, e il vino attingendo al cratere
Portilo intorno il coppiere e versilo dentro le coppe:
Questo a me pare che sia nel cuore la cosa più bella.