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la poesia lirica in roma 161

che poteva suscitare odî e sospetti, Romulus. Ma in vero Cesare meritava di essere agguagliato al fondatore di Roma, egli che la aveva tratta da una morte parsa sicura. Un’idea che serpeggiò sino a che divenne fatto, da Cesare arrivando a Costantino, errava nel mondo antico: che Roma non potesse continuare a essere la sede dell’impero. Si sapeva o diceva che Iulio Cesare aveva manifestato il proposito di trasferirla ad Alessandria o ad Ilio; si era veduto o creduto che Antonio, che presso molti passava per il vero continuatore di Cesare, minacciasse la stessa diminuzione all’Urbe. Le ragioni che tre secoli dopo parvero buone a Costantino, non erano cattive nemmeno ora, e di Ottaviano si poteva dubitare, sospettare, temere, che le trovasse ottime. Quando fu noto e aperto il consiglio suo di rimanere in Roma, il che fu probabilmente significato dall’ordine di ricostruire i templi arsi o rovinati, Augustus egli divenne per il popolo, e il poeta inneggiò a lui come a dio. L’opera non era compiuta: ai confini rumoreggiavano popoli non domi o mal domi; ma il domarli non sembrava più se non questione di tempo, ora che l’impero aveva riacquistato la sua unità e la sua forza. Le discordie civili erano finite, bastava ora regolare le nozze, rinvigorire l’educazione, emendare i costumi e riafforzare il carattere dei cittadini. Il rimedio disperato di riportare in Oriente i penati di Troia, era messo da parte, e il Capitolio si vedeva raggiare col fastigio d’oro in mezzo al mondo pacificato. Queste idee e sentimenti esprime Orazio con una specie di poema gnomico ed eroico nel tempo stesso, originalissimo, che ha i liberi trapassi e gli episodi dell’alta lirica; del-