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la poesia lirica in roma 153

clusa da una mischia terribile, da un giorno oscuro di fuga e strage, nel quale si persero di vista1. Ora si ritrovano e si ripete uno di quei giocondi convivii di dodici anni prima. Forse a un altro reduce è diretta l’ode Musis amicus2: ma il reduce è non più che un giovinetto. L. Aelio Lamia aveva probabilmente seguito Cesare in Egitto; ora, di ritorno, è salutato e festeggiato da Orazio che si fa bello, come nelle due odi precedenti, della sua consecrazione di poeta lirico. Sub lauru mea riposa: dice a Pompeo; o dolce Musa nuova, fa una ghirlanda di fiori sbocciati al sole per il mio Lamia: esclama in questa. Orazio, perchè amato dalle Muse, non ha più alcun timore. Le nuvole, che il giovinetto reduce afferma esserci ancora in Oriente, per i tumulti dei Parthi e per i movimenti dei Daci, Orazio le dissipa al vento. Egli ha la lira nuova, il plettro Lesbio. Il che si riferisce, come in genere a tutta la poesia lirica, così in ispecie alla strofa alcaica, nuova conquista d’un momento di tripudio alla notizia che le guerre civili erano finite per sempre.

All’annunzio della morte di Cleopatra, la strofa di Alcaeo; al ritorno del vincitore, quella di Sappho. In Alcaeo, che Orazio preferiva, egli vedeva la strofa così detta Sapphica, adoperata specialmente, se non esclusivamente, negl’inni3. In verità è di un ritmo proprio della contemplazione, sia il poeta avanti la divinità possente, sia in presenza della propria anima turbata. La placida ondulazione del dattilo tra le due dipodie trocaiche, culla, in certo

  1. C. XI [II-VII].
  2. C. XII [II-XXVI].
  3. È scolion il fg. 36 Bergk.