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la poesia lirica in roma 139

filosofi. Mentre studiava quelle dottrine, cercando la pace dell’anima specialmente presso gli Epicurei, veniva in Atene nel mese sestile dell’anno 710 M. Bruto, cui il sangue di Cesare faceva mirabile a quei giovani adoratori di Catone; di Catone, che era morto leggendo un filosofo greco. Il giovane Orazio seguì Bruto in Macedonia, poi in Asia. Fu tribuno militare, cioè comandante, con altri cinque, d’una legione. In tale grado si trovò alle due giornate di Philippi, donde scampato e ottenuto, con gli altri, il perdono, tornò a Roma. Suo padre era morto; il suo patrimonio era sparito, per confisca.

Egli si trovò costretto a domandare un impiego, uno scriptum quaestorium; e così fu scriba. E intanto la paupertas, che sveglia le arti, come dice Theocrito, che è audax, come dice esso Orazio, lo spinse a far versi1. La quale espressione è bene uno scherzo del poeta giunto al fine della sua carriera e che riposa, come il fortis equos di Ennio; uno scherzo col quale egli accomuna la poesia a tutte le arti e mestieri; ma accenna pure anche al fatto che in vero da quella sua arte fu vinta quella povertà. Ora pensava Orazio a questo fine non ideale, sin d’allora, sin dai suoi primi versi? pensava che quei versi gli avrebbero procacciato, non dico danaro da’ librai, il che non pare verisimile potesse sperare, ma il rispetto e la protezione de’ potenti? Chi pensa il pregio in che erano tenute le lettere e in specie i versi dai Romani, chi ricorda che non si conta, si può dire, tra loro uomo di stato e guerriero che non fosse, più o meno, scrittore e poeta; non può dubi-

  1. Epl. II, ii, 46 e segg.