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AVENIMENTO XXXIII


Chiomara, moglie di Ortiagonte, signore de’ gallogreci, fatta prigione da’ romani e assegnata ad un centurione, usatale costui forza e macchiatale la sua castitá, ella da’ suoi lo fa uccidere e ne porta al marito la testa.

Restò ciascuno degli ascoltanti attonito e pieno di maraviglia, sentendo da inesser Fabio raccontare la incomparabile castitá della giovane greca, e la onesta morte da quella cercata per non violare la sua pudicizia; di che, variamente ragionando i giovani infra di loro, ne dieder segno. Ma, poiché messer Fabio venne del suo ragionamento al fine, messer Fulvio, guardando messer Emilio, gli impose il seguitare. Il quale disse:

Grandissima invero si vede essere stata la costanza di Artemia, la quale in due guise si dimostrò: nell’una, non essendosi mai essa piegata all’ingordo e libidinoso appetito de’marinai; nell’altra, eleggendo per lo scampo della sua virginitá la morte. Al dubbioso passo della quale il disporsi ebbe bisogno di una rara fermezza d’animo; di maniera che essa fu costante a non si lasciar vincere dallo appetito carnale, e fu costantissima a correre, per salvare il suo onore, alla morte. Fece costei senza alcun fallo quello che non so quale altra donna sostenuto avesse, di spendere la sua vita per mantenersi casta. Conciosiacosaché ciascuna altra, secondo che porta la donnesca fragilitá, non solo non averia preso per rimedio della costui libidine il morire, ma, allettata dagli amorosi basci, losingata dai piacevoli abbracciamenti e vinta dagli stimoli della carne, come da naturale e commune affetto che ciascun sente, si sarebbe doppo molti e instanti prieghi de’ marinai a li loro piaceri inchinata. Superò la castissima Artemia, per quanto si vede, molte altre donne pudiche e, fra tutte quelle che rammemorare si possono, la romana Lucrezia; la quale, ridotta al passo di dover essere violata da Sesto Tarquinio, giovane di sfrenata libidine, temette piú quella arme,