Pagina:Parabosco, Girolamo – Novellieri minori del Cinquecento, 1912 – BEIC 1887777.djvu/188

se altra cosa c’è; che mi pare che queste composizioni abbiano assai di quel ch’io desidero. — Questa che segue — disse il C orso — è una sestina. — Sia ciò che si sia: di grazia — replicò il Contarino, — leggete, se non siete stanco, ché ancora nella se s:ina si possono dire di belle cose, ed è un poema molto vago, ancorché assai persone si trovino a cui troppo non piacciano. — Cosi comincia — disse il Corso:

Piú non veggio apparir l’amate luci, che si chiara a me far solean la notte; non veggio chi m’accese in petto il foco, lei che d’ogni virtú fu rivo e fonte; sparito ogni mio bene è in pochi giorni, come sparir suol nebbia al vento e al sole.

Giunto, lasso, a l’occaso è 1 mio bel sole, che fu lume e vigor di queste luci; rivolti sono i miei felici giorni in longa, tenebrosa e cieca notte; secca è la vena di quel vivo fonte, che refrigerio fu del mio gran foco.

Privo inanzi sará di caldo il foco, scuro, immobile in ciel cedrassi il sole, che fin ch’io viva tmqua s’arresti il fonte, che cosi amaro vieti da queste luci : luci dolenti, a cut si fa piú notte, quando piú chiari altrui si fanno i giorni.

Ahi, quanto lunghi mi parranno i giorni, ésca ed obbietto del mio eterno foco, senza te, che traesti ogni mia notte il sonno teco, e di lor fosti sole!

Sole a’ miei di, riposo a le mie luci, ov’è di tua pietá si largo lolite.-*

S’ogni lago, ogni fiume ed ogni fonte innondasse il mio core, e tutti i giorni fosser secoli, etati, o alme luci, poco spazio ed umor, per mancar foco tal, fòra, a cui giá par non truova il sole ovunque, aprendo il di, scaccia la notte.