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divagazioni in bicicletta 203

fluente suo, il Messa. Molti operai e manovali vi lavoravano in quel giorno a costruire dighe e ripari; più innanzi gettavano la massicciata o semplicemente tracciavano la via; così per circa sei o sette chilometri, e quella gente vedendomi passare i guadi o tentare i passi con la bicicletta sulle spalle o a mano mi compassionava in tuono canzonatorio; giacchè per il villano tutto ciò che non fu fatto o è audace o originale desta il senso del ridicolo. Dopo due ore di fatica non comune, finalmente raggiunsi il tratto solido e l’ultima schiera di operai mi disse «bravo!» e di cuore e mi assicurò che le mie gomme erano le prime a calcar quella via; e in fatto due villanelle che pascolavano il loro gregge mi accertarono di non aver visto mai di quei cavalli che mangiano aria.

Questa via che si congiunge con l’antica strada di Badia Tedalda, corre fra i monti in lieve salita, continua, sempre lungo il corso del Marecchia: la ghiaia non è calcata da ruote, il paesaggio è silvestre: qualche mulino in fondo al fiume, viandante nessuno. Solo un uomo che faceva la mia strada mi si accompagnò, un uomo con un ragazzo; ambedue col sacco in ispalla: nei tratti ciclabili io montavo in sella, percorreva cinque o sei chilometri ma finivo sempre per incontrare il mio uomo davanti a me cha pareva prender gusto a quel giuoco. Ciò mi sorprese non poco, ma la spiegazione del mistero mi fu data osservando le sue gambe lunghe, aduste e moventisi come compasso e sapendo la sua professione di onesto contrabbandiere. Pigliava le scorciatoie, che di que’ monti sapeva ogni più riposto sentiero. Quando fu ben certo che io non aveva nessuna parentela con la finanza e nemmeno con la benemerita arma dei carabinieri, diventò il più allegro e piacevole compagno del mondo e con quella sua parlantina toscana — egli era di Caprese — mi veniva raccontando una serie di av-