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ferenze di voi? Se sì, ditelo presto e l’affare è fatto».

Era stata allieva di qualche scuola di ragioneria, la signorina, per trattare l’amore così alla spiccia?

La signorina era carina: e ti confesso che se l’avessi veduta su di un balcone di marmo a Venezia, intenta a interpretare l’azzurro interminabile della laguna, io mi sarei chiamato felice di una così rara ventura. Invece io la vidi un giorno, quasi da vicino, in un grande negozio: slanciata, bella, elegante in un grembiuletto di seta, tutto quello che vuoi; ma ritta accanto ad un libro mastro. Era il negozio paterno. Esso era immenso, pieno di commessi, e ne esalava quell’odore di droghe, caucciù, medicinali che mi pareva l’odore di Milano. Il sorriso, che lei mi lanciò dietro il libro mastro, si impregnò di drogheria, di ragioneria. Ma che importa la ricchezza! Che importa la miseria! — dissi fra me — Non è la Miseria la divina introduttrice nel vestibolo della Gloria? Almeno così avevo imparato nei romanzi e anche nei libri di scuola.

Allora avrei dovuto lasciarla: una bella lettera d’addio, e tutto finito. Ma io, uomo inconcludente, oltrechè cretino, non sapevo decidermi. Non per amore, sai, ma così, per quella impotenza morale, che ho alfine riconosciuta come mia proprietà inalienabile: e un po’ per egoismo, perchè mi confortava il sapere che, nella città tu-