Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/217


— 217 —

Poi, tendendole una coppa verde, col piede e le anse di purissimo oro:

— Volete bere in questa coppa? È simile a quella, in cui pianse la moglie di Carlo V dalla stizza che non a lei fossero state donate le famose tre gemme. Una lagrima è caduta in essa e un mago l’ha cambiata in una perla che poi ha legato, com’è questa, con cinque catenelle d’oro sottili e morbide come fili di seta.

Irene prese in mano la coppa, e, nella trasparenza verde dello smeraldo, si vide disegnata la mano come sarebbe stata di lì a due o trecento anni la mano sua o quella di Carlo V o tutte quelle di due o trecent’anni fa; la perla le si era attaccata all’anulare, ornamento inutile e simbolico.

— Qual rito si compie in questa stanza? — domandò stordita.

— Qui si lavora alla sintesi della vita come a una sintesi chimica. Se potessimo scoprire i misteri della forza creatrice della Natura, potremmo riprodurre la vita colla sola conoscenza delle leggi che presiedettero alla sua formazione. Ma, visto che un tale scopo sarebbe troppo arduo per una povera mente umana, ci siamo limitati a scrutarne una parte: la vita misteriosa delle pietre. Ad altri l’indagare colla loro scienza ciò che rimane d’indispensabile nel mondo — gigante come un tutto davanti a cui noi non siamo nulla.

E il volto del Maestro assunse un’espressione di perfetta indifferenza.

Le ragazze, nella curiosità della loro gioventù, cercarono indovinare il suo pensiero.

Senza dubbio il Maestro non aveva gran fiducia nella loro intelligenza e nella loro cultura.

Facendo loro da guida non si mostrava nè annoiato nè entusiasta. Parlava con tono uniforme, accentuando le parole e rispettando coscienziosamente un’invisibile punteggiatura. Spesso tendeva orizzontalmente la mano come se reggesse un vassoio, su cui offrisse qualcosa.

A Irene quel gesto ricordava le ben note fotografie di Venezia, dove i forestieri si sentono in dovere di tender la palma ai colombi addomesticati e restar fermi ad aspettare che vengano a posarvisi, fissati per l’eternità in vedute della grandezza quasi sempre d’una cartolina postale.

Qual’era il colombo che il Maestro voleva attirare col becchime delle sue parole? Qual’era il colombo che il Maestro aveva fatto volar dalla palma della sua mano rimasta tesa e vuota?

(Trad. di Ramiro Ortiz).


I. Peltz, romanziere dei quartieri suburbani («mahalàle») di Bucarest, cominciò giornalista, ma, frequentando le sedute domenicali del cenacolò dello «Sburătorul» e incoraggiato nei primi suoi tentativi d’arte dall’approvazione e dai consigli del critico E. Lovinescu, nella cui casa si tenevano e continuano a tenersi; ha dato alla letteratura romena alcuni romanzi che lo mettono in prima linea tra i giovani prosatori. Il suo stile, da principio raffinato e impressionista, si è, negli ultimi romanzi del ciclo «Tzara cea bună» (La patria buona) semplificato, senza però mai cader nello sciatto e nel banale. Il suo romanzo più noto è