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la quale gli sarebbe stato impossibile comunicare le proprie idee, e che giudicava i suoi libri un semplice dilettantismo.

Quindi tale noncuranza della principessa lo sferzò a sangue sul cuore.

«Una civetta come tutte le altre!» mormorò poco dopo mentalmente rituffandosi nel veglione.

Ma lo spettacolo gli parve allora anche più volgare. Nessuna maschera era elegante, nessun costume rivelava un’idea o almeno una sufficiente cultura nell’imitazione: poco lusso e non molta grazia. Oramai tutte le signore erano discese a cena; rimanevano le figlie e le mogli degli impiegati, che profittando dell’intervallo cominciavano a ballare senza più soggezione degli altri, in un allegro oblio della propria meschinità. Qualche coppia vagava a braccetto, assorta, beata momentaneamente di una intimità chissà da quanto tempo sospirata. Egli non volle ballare: alcune fra quelle ragazze senza maschera lo ammirarono sinceramente.

— Che buffonata! — pensò all’improvviso insolentendo tristamente contro quel sollazzo di una piccola gente curvata tutto l’anno sotto il peso della economia domestica.

Tuttavia una vanità anche più piccola lo attirava irresistibilmente verso quell’ultimo gabinetto, nel quale cenava la principessa. Resistette, poi colla solita sofistica di tutte le passioni si persuase di vincere una falsa paura coll’andarvi, e traversò il vasto appartamento fino allo stanzino del caffè per chiedere delle sigarette.

Nel passare per quell’ultimo gabinetto, ove non sedevano a tavola che quattro uomini e quattro donne, nessuno gli badò; egli ripassò altero, senza