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sposato, regalandogli presto in quella allegra vita, senza troppo capirla, due figli. Quindi nel crollo improvviso di tutta la casa restò più intontita che afflitta: la sua natura bonaria, capace di vivere in ogni condizione quasi colla stessa facilità, devota, fredda, di un appetito insaziato e di un cicalìo inesauribile, la salvò dalle cupe malinconie dei decaduti.

Poi morì abbandonando il giovane dissoluto con due bambini, solo e povero. Il giuoco gli aveva già fatto perdere quasi tutte le masserizie, senza che il suo temperamento ne fosse domo: lasciò i figli crescere nel rigagnolo e iniziò per sè stesso un sistema di scroccherie basato sulle antiche relazioni di famiglia. L’arguzia dei primi espedienti aiutata dalla sfacciataggine delle maniere gli diede per qualche anno un abbondante ricolto; in seguito slargò le operazioni, come soleva egli stesso dire ironicamente, circuì ogni forestiere signorile capitasse nel paese, fece da scrivano e da segretario, fu sensale e mezzano, visse di tutto e di tutti. Avendo una eccellente calligrafia, qualche studio grammaticale e potendo firmare "conte" e "cavaliere", due titoli che davano una grande rispettabilità alla sua volontaria sventura, potè spillare quattrini al vescovo, poi a quanti gli successero, finchè giunto il ’59 ed eletti i deputati si credette quasi ricco. Per molti anni gabbò tutti quelli della provincia col darsi a credere a volta un Giobbe e a volta un grande elettore, o partendo talora cogli abiti più sdruciti a fare il giro della diocesi si presentava ovunque e sempre col migliore italiano, mentre nel villaggio per dispregio della gente non discorreva mai che nel più sordido dialetto, ma ritornando invariabilmente senza un soldo dopo averli tutti perduti in qualche bettola.

Però non sentiva rimorsi. E oltre il giuoco aveva