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che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell’Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia.

«Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo?», esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso.

Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola.

La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell’idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll’accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti.

Infatti a mezza strada s’imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti.

Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l’amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l’atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha in-