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nereggiava sotto l’immensa coperta frangiata d’argento.

Ma le ghirlande vi si ammucchiavano come cadute dal cielo, coi fiori ancora sorridenti nel lume delle torce.

La sua anima vacillò. Non era la morte quella, ma una inesplicabile pompa nuziale intorno ad un talamo poggiato sui fiori e coperto di fiori per nascondere sotto la castità della loro bellezza un più casto imeneo. Le tede ardevano allineate ventando carezzevolmente ad ogni sospiro. Solo il panno mortuale era troppo nero, e la sua frangia d’argento stava immobile in una pesantezza sinistra. Chi dormiva lì sotto, mentre i fiori e le torce vegliavano ancora?

Si avvicinò adagio, cogli occhi sbarrati, come tratto al profumo dei fiori; una scritta sul finto muro di legno che sosteneva il feretro lo arrestò. Era a caratteri biancastri sotto un teschio e due stinchi incrociati: — MEMENTO HOMO QUIA PULVIS ES ET IN PULVEREM REVERTERIS. — Egli l’aveva letta ben altre volte, ma in quel momento il terribile avviso lo colpì come una rivelazione. Infatti era veramente la morte a due passi da lui, sotto l’ombra troppo densa di quella coperta frangiata d’argento, la morte infinitamente terribile nel proprio mistero malgrado tutte quelle luci e quei fiori, che parlava minacciosamente nella lingua consacrata dalla chiesa di Cristo, il redentore risuscitato.

Come uno spettatore qualunque egli indietreggiò per girare intorno al feretro e contemplarlo da tutti i lati, quasi scordandosi di averlo già studiato durante la lunga funzione fra la ressa dei preti, che cantavano, e cantando lui stesso col turibolo in mano. Nell’altro fianco la scritta ammoniva: HODIE MIHI CRAS TIBI e altri motti ripetevano sem-