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sulla lingua italiana 653

bel veneziano, mostrò come, al pari dell’altre facoltà, possedesse quella del ben dire. Ci sono, senza dubbio, in quelle commedie i sali e i motti a suo luogo, e chiamati dalle circostanze; ma ci sono anche, e ne occupano una molto maggior parte, accidenti e affetti d’ogni sorte, gioie, dolori, sospetti; ci sono preghiere eloquenti, rimproveri amorosi, riprensioni severe,

Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas,
Gaudia discursus1;


insomma le materie dello stesso genere di quelle che compongono le commedie italiane dello stesso autore. Di più, se di più ci fosse bisogno, si ha anche di lui una commedia francese, e dettata, per consenso degli spettatori e de’ lettori francesi, in quella forma che i Latini chiamavano, tanto propriamente, urbanità e i Greci atticismo2. C’è, o non c’è, da cavare una conseguenza da questo contrasto di fatti?

Ma per rimanere, o per tornare, in un campo di fatti più comuni, dove l’inconveniente è più generale, e più palese, e il rimedio sarebbe più facile, e non richiederebbe, nè l’aiuto di molto tempo, nè il concorso d’altri mezzi, non è egli un’altra pietà il veder tanti maestri e maestre non avere il come insegnare a’ bambini a nominar le cose più usuali con de’ vocaboli non vernacoli e da potersi mettere in carta? Basterebbe, mi pare, questo tristissimo fatto, per dare un giusto motivo di non lasciare in pace chi ci potrebbe metter rimedio: a meno che non venga un qualcheduno il quale dimostri; o che la cosa non vale la fatica d’occuparsene, o che il rimedio potrebbe venir da altra parte. Chi riuscirà a questo potrà poi anche dimostrare, secondo gli paia più facile, o che il voler procurare l’unità di misure a un paese che n’aveva di generi diversi, fu una frivolezza, o che si poteva ottener questo intento senza sostituire a tutte una misura sola.

Tra tanti e tant’altri fatti che si potrebbero addurre in prova di questa mancanza in Italia di nomi comuni per significare cose comuni, ne scelgo uno notabile per aver dato materialmente nell’occhio a uno straniero, il quale, non sapendo come trovarci una spiegazione, la chiese a un mio amico che si trovava in un vagone con lui, andando da Milano a Firenze. Trascrivo da una lettera di questo mio amico il dialogo che ne seguì:

«Il mio interlocutore era un giovinotto francese di bonissimo garbo, che non era mai stato in Italia, e giacchè c’era venuto, voleva almeno spenderli giustificati. Osservava, interrogava e notava in un suo taccuino che era sempre in ballo. Durante la fermata del treno a Pistoia, mi domandò che cosa voleva dire una parola dipinta in verde a gran caratteri sopra una porta. La parola era egresso. Risposi che voleva dire sortie. — Tirò fuori il taccuino, e dopo averlo consultato, soggiunse . Alla stazione di Milano c’è uscita. E se avrete, soggiunsi io, la pazienza d’arrivare a Firenze, alla Stazione di Firenze, troverete sortita; e non c’è nessuna ragione perchè andando più in là non troviate, esito, uscimento, evacuazione o che so io.

Stette un momento sopra pensiero e poi riprese:

Però, ora che siete un solo Stato, tutti questi dialetti, che mutano a ogni passo, devono essere un grande incomodo per voi.

  1. Iuven. Sat. Ia, 85, 86.
  2. Meo quidem iudicio, illa est urbanias .... qualis apud Graecos atticismus. Quintil. Instit. VI, 3.