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628 appendice alla relazione

torno a questo Dizionario avremo più d’una volta occasione di entrare in maggiori particolari.

O forse quelle parole vogliono significare, più in genere, una dicitura, un frasario applicato a diverse materie, separato e diverso dall’Uso comune, e adoprato dalle sole persone di Lettere; e anche da loro, solamente quando scrivono? Le parole: «la lingua più propria dei libri» che vengono quasi subito dopo le citate, parrebbero accomodarsi a una tale interpretazione. Ma senza attribuire ad esse un senso più esteso e più risoluto, che non sia forse quello che intese l’illustre Relatore; e poichè il concetto d’una lingua scritta e d’una lingua parlata (due lingue in una!) è ammesso da molti, poichè inoltre un tale concetto è, a mio credere, un effetto e una cagione, a vicenda, della confusione d’idee che regna tra di noi in materia di lingua, credo che possa tornar utile il farci sopra qualche osservazione.

Ci fu senza dubbio, in un’epoca, una lingua propria de’ libri. L’epoca era il medio evo; e la lingua, il latino. Ma quando, nelle nazioni che si trovavano in una tal condizione, si principiarono a comporre libri in idiomi viventi, allora si potè intravvedere la fine di quel tristo divorzio tra i dotti e il pubblico. E come mai, in un tal momento, avrebbero i libri potuto mantenere l’infelice privilegio d’avere una lingua propria? S’inventarono forse a un tal fine delle lingue nove, che non fossero nè il latino, nè un volgare? E con quali mezzi, con quali elementi? E ci sono forse idee che non possano essere espresse che con note alfabetiche, mentre queste, come disse benissimo uno scrittore, non sono altro che segni dei segni vocali? E se delle locuzioni venute fuori prima ne’ libri, passano, per mezzo de’ loro lettori, nel discorso (cosa non solo possibile, ma desiderabile, quando tali locuzioni abbiano un significato utile) come si potrà dire che fossero d’una lingua propria de’ libri?

I Dialoghi di Platone, i quali sono altrettanti libri, e che, appunto per essere lavori d’un uomo tale, e nato e vissuto in mezzo a un Uso vero e reale, dovevano imitare un vero discorso, erano lingua scritta, o lingua parlata? Erano lingua attica, che voleva dire e discorsi e libri.

Lo Specchio della Vera Penitenza è, non solo un libro, ma uno di quei libri che dalle persone di Lettere per eccellenza sono proposti per esemplari di bona lingua. Ora, in qual lingua il bon frate Jacopo Passavanti intendesse di scriverlo, sentiamolo da lui. «Provocommi l’affettuoso priego di molte persone spirituali e divote, che mi pregarono, che quelle cose della vera penitenza, che io, per molti anni e spezialmente nella passata quaresima dell’anno presente, cioè nel mille e trecento cinquantaquattro, aveva volgarmente al popolo predicato, ad utilitade e consolazione loro, e di coloro che le vorranno leggere, le riducessi a certo ordine per iscrittura volgare, siccome nella nostra fiorentina lingua volgarmente io l’avea predicate1». Se erano in una lingua propria de’ libri, era anche stata un’incongruenza il predicarle al popolo; se non lo erano, come lo divennero con l’essere trasportate in un libro?

Tra i libri francesi, le Lettere Provinciali di Biagio Pascal segnano, riguardo alla dicitura usata ne’ libri, il principio d’una nova e stabile maniera. Si può dire di esse, come dell’ingegno d’Ortensio disse Cicerone, che L’apparire e il sodisfare fu tutt’uno2; e un tal giudizio non fu mutato mai. Tra le infinite testimonianze di ciò, basterà citare questa del Vol-

  1. Nel Prologo, verso la fine.
  2. Q. Hortensii admodum adolescentis ingenium, ut Phidi ac signum, simul adspectum et probatum est. Brutus, LXIV.