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dell’unità della lingua 603

umana che è ciò che l’universale degli uomini intende per lingua, per quanti possano essere, nel gran numero di esse, i nomi con cui s’esprime questo concetto.

Ora, sebbene quelle due quantità di locuzioni differiscano di molto, riguardo all’origine, sono uguali nel resultato, cioè nel non esser lingue.

Dell’insufficienza a ciò delle locuzioni latine rimaste, la cagione è evidente per sè: una parte non può essere un tutto. La cagione d’una uguale insufficienza delle locuzioni comuni a tutta l’Italia, è facile a trovarsi. Come mai dalle relazioni che gl’Italiani delle diverse province possano aver avute tra di loro sarebbe potuta resultare quella totalità di segni che, in una società riunita, resulta necessariamente da relazioni giornaliere, continue, inevitabili, e d’ogni genere? Chiunque poi, e a qualunque provincia d’Italia appartenga, desiderasse aver di ciò qualche prova di fatto, non ha che a frugare nella sua mente, e troverà senza fatica un’altra quantità da opporre a quella che abbiamo riconosciuta dianzi, cioè una quantità di cose che nomina, di concetti che esprime abitualmente, e con de’ boni perchè, sia in Veneziano, sia in Napoletano, sia in Bergamasco, sia in Parmigiano, sia in Sardo, e via discorrendo; e la locuzione corrispondente in una lingua italiana di fatto la cercherà invano. Nascendo il bisogno, ne uscirà certamente in qualche modo: o per mezzo di un gallicismo, o d’una perifrasi, o col definire invece di nominare, o adoprando un termine di senso affine, o generico, dove il suo idioma glie ne dava uno proprio e specifico. Ma sono queste le condizioni d’una lingua ?

Dello stesso valore è la supposizione che una lingua italiana s’abbia a trovar negli scritti.

Non vogliamo negare, neppure in questo caso, che anche lì ci sia una quantità di locuzioni identiche. Ma per aver ragione di negare che una tal quantità costituisca un tutto, e un tutto omogeneo, non abbiamo neppur bisogno di ficcar l’occhio in quel guazzabuglio di significati che, a cagione de’ diversi pareri, si comprendono, o piuttosto litigano tra di loro in quella parola scritti: tutti gli scritti, o una tale o una tal’altra parte scelta; scritti d’ogni età, o d’un secolo o di due; di tutta l’Italia, o di una parte sola; scritti che da persone tutt’altro che ignoranti, sono vantati e proposti per modelli di bellissima lingua, e da altre persone tutt’altro che ignoranti sono chiamati caricature. E questo, con dell’altro, è ciò che a molti. pare d’aver ridotto a un’unità col dire la lingua degli scrittori, ovvero la lingua scritta. Ma per il nostro assunto basterà, anche qui, una domanda: come mai una lingua (che è quanto dire una lingua intera) si potrà ritrovare in quel tanto o quanto che ad alcuni e molti e moltissimi, se si vuole, ma pur sempre alcuni a fronte d’una intera società, sia venuto accidentalmente in taglio di mettere in carta?

La cagione originaria di tutte quelle e d’altre simili opinioni è stata l’aver principiato dal cercare quale fosse la lingua italiana, senza aver cercato prima cosa sia una lingua, per veder poi se ce ne fosse una italiana, adequata al concetto logico di questo vocabolo.

Una seconda obiezione che ci troviamo a fronte, è: che ciò che si vuole per l’Italia è una lingua; e il linguaggio di Firenze non è che un dialetto.

Questa antitesi non è altro che un cozzo di parole male intese, e che, in questo caso, non corrispondono ad alcun fatto reale.

Ci possono essere bensì, e ci sono, de’ dialetti, nel senso di parlari che si trovino in opposizione e in concorrenza con una lingua. E ciò accade presso quelle nazioni dove una lingua positiva riconosciuta unanimemente, e diventata comune a una parte considerabile, e particolarmente alla parte più colta delle diverse province, sia riuscita a restringere in un’altra parte di esse più rozza; e che va scemando ogni giorno, l’uso di quelli