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ginato una volta deva divenire e rimanere una dottrina, una convenzione perpetua.

Per provar poi, con de’ fatti anche loro, che la mitologia poteva benissimo piacere, anche nella poesia moderna, i Classicisti adducevano che l’uso non se n’era mai smesso fino allora. A questo i Romantici rispondevano che la mitologia, diffusa perpetuamente nelle opere degli scrittori greci e latini, compenetrata con esse, veniva naturalmente a partecipare della bellezza, della coltura, e della novità di quelle per gl’ingegni che, al risorgimento delle lettere, cercavano quelle opere con curiosità, con entusiasmo, e anche con una riverenza superstiziosa, come era troppo naturale; e che, come non era punto strano che tali attrattive avessero invogliati, fino dal principio, i poeti moderni a dare alle invenzioni mitologiche quel po’ di posto; così era non meno facile a intendersi che quella pratica, trasmessa di generazione in generazione coi primi studi, e trasformata in dottrina, non solo si sia potuta mantenere, ma, come accade delle pratiche abusive, sia andata crescendo, fino a invadere quasi tutta la poesia, e diventarne il fondamento e l’anima apparente. Ma, concludevano, certe assurdità possono bensì tirare avanti, per più o meno tempo, ma farsi eterne non mai: il momento della caduta viene una volta; e per la mitologia è venuto.

Infatti, quello stesso vigore straordinario e apparente, che aveva acquistato presso di noi, ne poteva esser riguardato come un indizio, giacchè non era l’espansione d’una forza innata della poesia, l’esercizio più vasto e più potente d’un suo mezzo naturale, ma l’applicazione sempre più esagerata d’un’aggiunta estrinseca e accidentale. E a chi volesse riflettere, doveva parere ugualmente difficile, e il supporre che quell’uso delle invenzioni mitologiche, sia prese per soggetto di componimenti poetici, sia, e molto più spesso, anzi a sazietà, introdotte in quelli, come agenti, come cause di avvenimenti, e pubblici e privati, potesse diventare una forma permanente della poesia; e l’immaginarsi quale parte più ristretta gliene potesse rimanere; in quale misura, con quale distinzione, un tale uso potesse venir mantenuto; dove si potesse trovare una ragione speciale, per la parte d’un tutto riconosciuto come irragionevole.

Tali, se mal non mi ricordo, giacchè scrivo di memoria, e senza aver sott’occhio alcun documento della discussione, erano le principali ragioni allegate pro e contro la mitologia.

Le confesso che quelle dei Romantici mi parevano allora, e mi paiono più che mai concludentissime. La mitologia non è morta certamente, ma la credo ferita mortalmente; tengo per fermo che Giove, Marte e Venere faranno la fine, che hanno fatta Arlecchino, Brighella e Pantalone, che pure avevano molti e feroci, e taluni ingegnosi sostenitori: anche allora si disse, che con l’escludere quei rispettabili personaggi si toglieva la vita alla commedia: che si perdeva una gloria particolare all’Italia (dove va qualche volta a ficcarsi la gloria!); anche allora si sentirono lamentazioni patetiche, che ora ci fanno maravigliare, non senza un po’ di riso, quando le troviamo negli scritti di quel tempo. Allo stesso modo, io tengo per fermo, che si parlerà generalmente tra non molto della mitologia, e della sua fine.

Intendo per fine, come l’intendevano i Romantici, e appariva da tutte le loro parole, il cessar d’essere una parte attiva della poesia; e questo mi fa venire in mente un’altra difficoltà che si opponeva loro, e che è un esempio curioso del vezzo tanto comune, d’allargare, cioè di trasformare delle opinioni, per combatterle più comodamente. — Stando alle vostre proposte, si diceva loro da alcuni, s’avrà a mutare una parte, non solo della poesia, ma del linguaggio comune. Non si potrà più dire: una