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appendice al capitolo terzo 551

viene dal mettere che fa il suo criterio in un incognito; come abbiamo cercato di dimostrare, in diverse e forse troppe maniere.

Eppure, tanto l’affetto a un sistema può far travedere! uno de’ vantaggi principali che gli utilitari attribuiscono al loro, è la facilità d’applicarlo, e d’applicarlo universalmente e concordemente. Sentiamo anche qui il più celebre, se non m’inganno, de’ suoi autori, il Bentham.

«Partigiano» dice «del principo dell’utilità è quello che approva o disapprova un’azione privata o pubblica, in proporzione della tendenza di essa a produrre o dolori o piaceri; quello che adopra i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, bono, cattivo, come termini collettivi che comprendono l’idee di certi dolori e di certi piaceri, senza dare a questi termini verun altro significato. E s’intende che queste parole, dolore e piacere, io le prendo nel loro significato volgare, senza inventar distinzioni arbitrarie per escludere certi piaceri, o per negar la realtà di certi dolori. Non sottigliezze, non metafisica: non c’è bisogno di consultare nè Platone, nè Aristotele. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; il contadino come il principe, l’ignorante come il filosofo1

Cosa da non credersi, che un uomo d’ingegno e di studio come fu quello, abbia potuto confondere, in una maniera tanto strana, il dolore e il piacere congetturato col dolore e col piacere sentito! Certo: per conoscere che quello che si sente è o dolore o piacere, non c’è bisogno nè di Platone, nè d’Aristotele. Ma per conoscere la somma de dolori o de’ piaceri che potranno venir in conseguenza d’un’azione, affine di poterla chiamar giusta, morale, bona, o il contrario, non basta nè Platone, nè Aristotele, nè tutte le scole antiche, moderne e future, nè l’umanità intera: la quale, del resto, non ha mai messa in campo una pretensione simile. Ha bensì sempre tenuto che la probabilità dell’utile o del danno che possa derivare da un’azione, sia materia e studio della prudenza: non ha mai pensato a fondarci sopra il criterio supremo della moralità.

È manifestò in quel raziocinio del Bentham quel paralogismo che consiste nell’addurre tutt’altro che ciò che può servire alla dimostrazione della tesi. Questa richiedeva che si dimostrasse la possibilità di riconoscere effetti futuri; e l’autore allega la facilità, grandissima senza dubbio, di riconoscere uno stato attuale del proprio animo.

Dove, in vece, trova tutto oscurità è nell’idea dell’obbligazione: «oscurità la quale,» dice, «non potrà esser dissipata, che dalla luce dell’utilità.» Quale sia questa luce, se n’è parlato più che abbastanza; e in quanto a quell’oscurità, non ci sarà, credo, bisogno d’una lunga osservazione per scoprire nella prova che il Bentham intende di darne, un’altra evidente fallacia. Gioverà, per maggior chiarezza, riferire per intiero il luogo dove tocca questo punto.

«Chiunque, in tutt’altra occasione, dicesse: — È così, perchè lo dico io, — a nessuno parrebbe che avesse concluso gran cosa; ma, nella questione intorno alla norma della morale, si sono scritti di gran libri, nei quali non si fa altro, dal principio alla fine. Tutta l’efficacia di questi libri, e il credere che provino qualcosa, non ha altro fondamento, che la presunzione dello scrittore, e la deferenza implicita de’ lettori. Con una dose sufficiente di ciò, si può far passare ogni cosa. Da questo arrogarsi un’autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo (legare); e tale è là nuvola di nebbiosa oscurità, in cui è ravvolta questa parola, che, per dissiparla, si sono scritti de’ volumi intieri. L’oscurità rimane

  1. Traités de Législation civile et pénale, extraits des manuscrits de J. Bentham, par Èt. Dumont; Principes de Législation, Chap. I.