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capitolo terzo 447

guire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d’ammirazione e d’applauso.

Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un’altra, è un fatto pur troppo vero. Simili a chi, trovandosi con una moltitudine assetata, e sapendo d’esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con de’ processi chimici qualche gocciola di quell’acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch’era stata loro insegnata, ch’era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d’avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata1. La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei? Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli? La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona? dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi anderemo? tu hai le parole di vita eterna2? dovrà cessare di ripetere che disperde chi non raccoglie con lui3? Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite? Le sono stati affidati de’ precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà de’ dubbi? Lascerà da

  1. Chi non riflettesse che le scienze morali non seguono la progressione dell’altre, perchè non sono dipendenti dal solo intelletto, nè propongono di quelle verità che, riconosciute una volta, non sono più contrastate, e servono di scala ad altre verità, non saprebbe spiegare come la dottrina dell’Helvetius sia potuta succedere in Francia a quella de’ gran moralisti del secolo decimosettimo. Stupito di vedere una scienza andare o piuttosto saltar così all’indietro, non saprebbe, delle due maniere di renderne ragione, quale ammettere come la meno strana: o che l’Helvetius, moralista di professione, non si fosse curato d’informarsi dello stato della scienza, e dell’opinioni di scrittori rinomatissimi e recenti; o che, leggendo le loro opere, non avesse veduto che le questioni che metteva in campo erano già completamente sciolte, e che la soluzione era sempre quella ch’egli doveva trovare la più nobile e la più utile, quella che avrebbe desiderato che ognuno adottasse nelle sue relazioni con lui; non avesse veduto come in que’ libri tutto concordi con la cognizione che l’uomo ha di sè stesso, come i principi siano senza eccezione di tempi o di persone, come la perfezione sia ragionata; come la scienza abbia bisogno della rivelazione, non solo per sciogliere i più alti problemi della morale, ma per porli adequatamente. A proposito di questo scrittore, ci si permetta di notar qui incidentemente una strana parzialità di giudizi. Il Pascal, per avere, in quegli staccati e preziosi appunti, a cui fu dato il titolo di Pensieri, osservati profondamente i mali dell’uomo, è stato le tante volte tacciato d’atrabiliario; e questa taccia non è forse mai stata data all’Helvetius che rappresenta la natura umana sotto l’aspetto il più tristo e desolante. Parzialità tanto più strana in quanto il Pascal, in quelle pagine, non respira che compassione di sè e degli altri, rassegnazione, amore, e speranza; egli riposa ogni tanto con gioia e con calma nel cielo lo sguardo turbato e confuso dalla contemplazione dell’abisso del core umano guasto com’è dalla colpa originale; e le riflessioni dell’Helvetius sono spesso amare, iraconde, insofferenti o d’una crudele festività. L’autore de’ Pensieri è atrabiliario perchè dimostra la necessità di rimedi che ci dispiacciono più de’ mali: l’autore dello Spirito cerca a ogni inconveniente morale una causa estranea; in vece d’urtare le passioni, le lusinga, insegnando a ognuno a attribuire i vizi alla necessità o all’ignoranza altrui, e non alla propria corruttela. È stato detto più volte, che il Pascal deprime troppo la ragione umana, e qualche volta pare fino che le neghi ogni autorità, per far più sentire la necessità della fede. E quando pure questa critica abbia un qualche ragionevole motivo, cosa si sarebbe poi dovuto dire di chi, esaltando in apparenza questa ragione, col dichiararla il solo e sovrano giudice della verità, e non trovando però la maniera di spiegare per mezzo di quella i più nobili e anche i più universali sentimenti dell’uomo, la degrada fino a darle l’incarico, grazie al cielo, ineseguibile, di dimostrarli insussistenti.
  2. Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes., Ioan. VI, 69
  3. Qui non colligit mecum, dispergit., Luc. XI, 23