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sulla lingua italiana 421

chezza l’essercene vari, più o meno probabili, dirò così, quale per una ragione, quale per un’altra. Ma non c’è da maravigliarsene; per svolgere o per sostenere un falso concetto, è indispensabile di falsificarne molt’altri.

Ma cosa avrebbero detto?

Oso rispondere che, o non avrebbero detto niente, o avrebbero detto tanto poco da non disturbare sensibilmente il bon effetto del suo lavoro. Molte volte quell’errore medesimo (e ne parlo come d’un solo errore, perchè i diversi sistemi in fatto di lingua italiana, per quanto differiscano ne’ particolari, sono simili nel voler tutti qualche cosa che non è una vera lingua, e nel concedere o nell’attribuire qualcosa di particolare a quella vera lingua che non vogliono riconoscere per tale) quell’errore medesimo, che nel campo della teoria, sarebbe andato avanti, con imperturbabile coerenza, a negare una verità, esita, si ferma e, se non rende l’armi, le ripone, quando si veda comparire davanti quella verità realizzata in un fatto, e molto più in un ordine, in un complesso di fatti. E codesto é uno di que’ casi, se ce ne può essere. Il suo Prontuario, anzi codesta sola parte del suo Prontuario non può a meno di non produrre due effetti efficacissimi a prevenire ogni seria e ostinata opposizione. Effetti che ho già accennati in diverse maniere; ma che le chiedo il permesso d’accennar di novo, come un sunto di tutta questa lettera.

Uno è di far sentire che, della cosa che ci dà, c’era un vero bisogno. Chè, per quanto i sistemi abbiano potuto far perdere di vista cosa sia una lingua davvero, e quali siano i suoi effetti essenziali e necessari, una raccolta di vocaboli significanti cose comuni, usuali, si presenta addirittura, e con immediata evidenza, come una parte essenzialissima di ciò che si vuole quando si vuole una lingua. Que’ medesimi i quali, se parlassero in astratto di ciò che deva entrare nel vocabolario della lingua italiana, penserebbero a ogni cosa prima che a questo, anzi non ci penserebbero punto, sono come costretti a pensarci, al vedersi comparir davanti una schiera di tali vocaboli, che pare che gli dicano: Ebbene? Volete dire che noi siamo roba che non ha che fare con una lingua? Vi sentireste di consigliare alle nazioni che hanno veri vocabolari di vere lingue, di cacciarne fuori i nostri equivalenti? O superflui là, o mancanti qui: quale di queste due proposizioni vi pare la vera?

L’altro effetto è di far pensare all’assoluta, intrinseca, incurabile impotenza de’ vari sistemi a soddisfare un tal bisogno. E quella che hanno chiamata lingua del bon secolo, e che in fatto non è altro se non que’ tanti scritti che rimangono d’un secolo; e una categoria di scrittori; e tutti gli scrittori insieme; e il tal vocabolario; e tutti i vocabolari; e il parlare di tutte le colte persone d’Italia; e quella qualunque cosa, o quelle qualunque cose, che si possano o si vogliano intendere per le parole: Illustre, cardinale, aulicum Vulgare in Latio, quod omnis latice civitatis est, et nullius esse videtur; e se c’è altro, son tutte cose, non solo incapaci, ma evidentemente incapaci di somministrar l’equivalente del suo Vocabolario domestico, come degli altri importanti e utili lavori che aspettiamo da Lei. Se delle persone a stomaco voto (mi passi una similitudine non troppo nobile, ma abbastanza spiegante) stessero disputando a chi tocchi a fare il desinare, e venisse uno a dire: è in tavola; e quelle persone entrando nella stanza da mangiare, vedessero una tavola apparecchiata davvero, con delle vivande davvero; si può credere che, dimenticando le dispute, si metterebbero a mangiare, e sarebbero tanto meno disposte a far dell’eccezioni, quanto più la vista di quelle vivande gli obbligasse a riflettere che tutt’intenti a sostenere ognuno il suo cuoco, nessuno aveva pensato al mezzo di far la spesa. E non mi par da temere che la forza di que’ due effetti sarebbe stata minore, se il Vocabolario fosse stato in tutto e