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cula,1 inventare a piacer suo, attaccando le sue invenzioni a invenzioni anteriori, celebri quanto la storia, o più, e insieme estensibili di loro natura. Le cognizioni storiche o credute storiche intorno a que’ tempi, erano scienza di pochi eruditi; e non voglio dire certamente che, nel secolo d’Augusto, l’epopea potesse serbare tutto quel libero e sicuro andamento della prima ma si pensi quanto deboli e larghe potevano esser per essa quelle pastoie, in paragone di quelle in cui si trovò poi stretta l’epopea storica. Non aveva Virgilio a ficcar gli dei, come fecero poi altri, che credevano d’imitarlo in avvenimenti, il concetto de’ quali era già nelle menti compito e spiegato, senza che quegli dei c’entrassero come attori personali e presenti. Li trovava nel soggetto medesimo: non era lui che, per magnificare il suo eroe, lo facesse figliolo d’una dea; nè che facesse per la prima volta scender questa a soccorrerlo ferito in battaglia.2 L’intervento dell’altre divinità in suo favore o contro di lui, era un seguito d’una gara già avviata, d’impegni già presi. E dall’altra parte, quel soggetto, che veniva così a essere quasi una continuazione dell’Iliade, era, cioè potè diventare in mano di Virgilio, il più grandiosamente e intimamente nazionale per il popolo nella cui lingua era scritto. Chè, al di là di tutte quelle vicende poetiche, e come ultimo e vero scopo di quelle, sta sempre Roma; Roma, il soggetto, direi quasi, ulteriore del poema. È per essa, che l’Olimpo si commove, e il fato sta immobile. Qualunque soggetto preso direttamente dalla storia di Roma, oltre al non poter mai diventare tutto poetico (che doveva essere un gran motivo di repugnanza per Virgilio) non sarebbe stato che un episodio di quell’immensa storia. Non poteva esser altro che un’impresa cagionata da imprese antecedenti, e diventata cagione d’altre imprese avvenire; una vittoria che preparava altre guerre; un ingrandimento dell’impero, che gli accostava altri popoli da debellare. Nell’Eneide, Roma è veduta da lontano, ma tutta; e lasciate fare al poeta a attirar là il vostro sguardo ogni momento, e sempre a proposito, sempre mirabilmente. Lasciate fare a lui a rappresentarvene anche direttamente la storia futura; ora in qualche particolare, con de’ cenni rapidi e maestri, ora più distesamente, con l’artifizio di bellissime invenzioni poetiche, come la predizione d’Anchise, o l’armi fabbricate da Vulcano. Invenzioni nove o vecchie, poco importa, quando sono passate per le mani di Virgilio.

Poichè, quale virtù di stile poetico si può immaginare maggior della sua? Dico quello stile che s’allontana in parte dall’uso comune d’una lingua, per la ragione (bonissima, chi la faccia valer bene), che la poesia vuole esprimere anche dell’idee che l’uso comune non ha bisogno d’esprimere, e che non meritano meno per questo d’essere espresse, quando uno l’abbia trovate. Chè, oltre le qualità più essenziali e più manifeste delle cose, e oltre le loro relazioni più immediate e più frequenti, ci sono nelle cose, dico nelle cose di cui tutti parlano, delle qualità e delle relazioni più recondite e meno osservate o non osservate; e queste appunto vuole esprimere il poeta, e per esprimerle, ha bisogno di nove locuzioni. Parla quasi un cert’altro linguaggio3, perchè ha cert’altre cose da dire. Ed è quando, portato dalla concitazione dell’animo, o dall’intenta contemplazione delle cose, all’orlo, dirò così, d’un concetto, per arrivare il quale

  1. Horat., De arte poet., v. 144.
  2. Æneid., XII; Iliad., V.
  3. Poetas quasi alia quadam lingua locutos non conor attingere. Antonius apud Cic., De Orat., II, 14.