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parte prima 335

che conviene al suo novo intento. Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta d’una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando, come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità. Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?

Ci si permetta di prevenir qui un’altra obiezione, ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni simili a questa, non manca mai. Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di lavori, che hanno due intenti, in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi.

Ci vuol poco a vedere che una tale obiezione non si fonda che su una petizione di principio. Certo, se il romanzo storico avesse un suo intento, più o meno diverso da quello della storia, ma ugualmente logico, sarebbe una stravaganza l’opporgli l’intento e le leggi della storia. Ma la questione è appunto se il romanzo storico abbia un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se possa, per conseguenza, avere delle sue leggi particolari, ordinate a quell’intento. L’intento d’un’arte è condizionato alla materia, o a ciascheduna delle materie che adopera; e aver veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d’una materia, in un’arte qualunque, è averlo veduto per tutte l’arti esistenti e possibili, che vogliano servirsi della materia medesima. Poiché il romanzo storico prende come parte della sua materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per questa parte, sia messo a paragone con essa. Non è per cagione del titolo, né della forma, né dell’assunto dell’opera, che della verità storica non si può far altro di bono, se non rappresentarla più distintamente che si può; è per la natura della verità storica. Anche l’alchimia aveva un suo intento, diverso in parte da quello della chimica: non le mancava altro, che d’ottenerlo; anch’essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi adattati a quell’intento: non le mancava altro, che di trovarli. E nulla è stato più a proposito che l’opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica, in quanto lavoravano tutt’e due sui metalli. E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto: Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l’alchimia.

Non ha il romanzo storico un intento suo proprio e insieme logico: ne contraffà due, come ho accennato. Certo, in questa proposizione - rappresentare, per mezzo d’un’azione inventata, lo stato dell’umanità, in un’epoca passata e storica, - c’è un’unità verbale e apparente. Ma la cosa che sarebbe necessaria per costituirne l’unità razionale, voglio dire la corrispondenza d’un tal mezzo con un tal fine, c’è gratuitamente e falsamente supposta. Il mezzo, e l’unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell’umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri l’ultime e vittoriose parole che nel momento più felice dell’osservazione, s’è trovato contento di poter dire a sé medesimo. Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d’alcune specie di fatti