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no a vile il diletto che gli lusinga, e soverchiano ogni spavento che loro incontra, e quinci sublimi onorano gli uomini tra’ quali vissero, e vivendo dopo la morte insegnano ai vivi l’arte di non morire. Cantati in viva voce, esposti all’eterna memoria, menano in trionfo il Tempo, trionfatore fortissimo di tutte le cose.


DISCORSO V

Come si muova, e come sì quieti l'ira.
E passa alle lodi della Rettorica.


Il rimirarmi salito in questo luogo, ed in questo tempo pare signori strana cosa a me medesimo, e di qui argomento quanto può strano parere alle SS. VV. E veramente io fui ritroso alle voglie de’ miei signori, i quali amavano di mi ci condurre. Dissi della mia grave età, e che mirassero i miei bianchi peli, e le mie guance rugose, e loro ricordai che la lena mi falliva, e rammentai il detto aulico, cioè, che era meglio cessare che meno venire, nè tacqui che io era uscito di patria, solamente per cercare alcuno conforto e ricrearmi; finalmente esposi che mi mettevano a paragone di Uomini, i quali io non voleva salvo per maestri, di cui lo splendore grandissimo oscurava ogni lume d’Italia, avvegnachè essi tutta Italia rischiarassero, e però io pregava per quanto la modestia esser dee cara ad uomo ben nato, che lui lasciassero dimorare in silenzio, il quale senza dubbio era per onorarmi. Dissi assai, ma il vento portavasene le parole, onde finalmente persuasi me stesso con le parole di Dante:

Ora poichè le ragioni mie non furono bastanti a scusarmi, io sono qui, e secondo comanda la calda stagione, dirò assai brevemente, e riguardando agli uditori, ingegnerommi di dire alcuna cosa per sè cara, e non senza alquanto di gentilezza, perciocchè essendo l’uomo non solitario, ma accompagnevole, è bello studio per lui cercare di farsi diletto a’ compagni, e da niuno vivere disamato, ma le naturali passioni turbandoci talvolta ci traggono lungi dalla ragione, e di qui sorgono disconcj non pure fra’ stranieri, ma spesse volle ancora tra gli amici, l’armi dunque di non parlare indarno, se io insegnerò in qual modo possa farli, che altri non si corrucci con esso noi, e corrucciatosi, si tranquilli e lasci l’ira. Dunque che cosa e Ira? Ira è voglia di manifesta vendetta per manifesto dispregio che si riceve. Ma questo dispregio in qual modo producesi? producesi quando si vilipende l’altrui, o le cose sue. Spero che non sarà molesto alle SS. VV. se io con la dolcezza della poesia anderò spiegando i miei pensamenti. Dunque leggiamo nel poema di Virgilio, che Aletto prese il sembiante di Breoe sacerdotessa, ed apparve a Turno, e gli fece chiaro che Enea e Latino trattavano di fare parentado, sposando Lavinia dama da Turno desiderata, ed accendevala a disdegno. Turno se ne fece beffe, ed ebbela come donna che per vecchiezza sentiva dello scemo; di qui Aletto infiammossi d’ira, e fece sentire a Turno del suo furore, e non per altro, salvo perchè egli non apprezzò suoi consigli. Facciamo similmente adirare altrui, quando contrariamo i suoi desiderj. Virgilio fa leggere, che Turno bramava Lavinia figliuola del re Latino per moglie, e capitando in suo paese Enea, ebbe talento di farselo genero, e Drance a ciò fare il persuadeva. Allora Turno infiammossi, e disse villane parole contra colui, perchè egli si attraversava alla vaghezza del suo animo. Talmente dunque dispregiando, o con fatti, o con parole altrui, generasi disdegno. A tranquillare l’animo adirato giova il dimostrarsi pentito sopra le colpe commesse e riconoscere l’adirato per suo superiore. Turno sotto la spada di Enea, per addolcirlo gli disse: hai vinto, ed i popoli dei Lazio hannomi veduto con le braccia in croce pregarli; ornai Lavinia sia tua. Giova similmente affermare, che assai si è patito per aver dispregiato, in cotale modo fece Venere parlando con Giove nel primo dell’Eneide: O eterno correttore della terra e del cielo, che cotanto commise Enea, che tanto i Trojani contra di te, che dopo tanti scempi sostenuti non trovano soggiorno nell’universo? Ma in un guardo puossi tutto questo vedere, che in ciò fare coviennsi, nel nono libro dell'Iliade. Ivi Ajace, Ulisse e Fenice tre campioni ben chiari, pregando Achille adirato a deporre il mal talento contro Agamennone, ed affermano che i Greci sono pentiti di averlo dispregiato, e che chieggono mercede, e che sono prontissimi ad onorarlo, e confessano che l’armata e l’esercito periranno senza il soccorso della fortezza di lui, e che Agamennone gli darà la figliuola per moglie, e sette città per dote, e prezzarallo non meno, che Oreste suo figliuolo. A me dovrebbe esser assai, avervi spiegata la dottrina di Aristotile e di Omero, ma non mi affido compiutamente, e certo la scuola di Aristotile oggidì appresso alcuno è scuola come ciascuna, e non punto angolare, nè credesi che egli più oltra vedesse, che altri. Anzi se a questi tempi vivesse, alzerebbe, come essi dicono, e non senza modestia la mano, e della poetica e della rettorica darebbe insegnamenti secondo nuovi maestri. Ed Omero oggi non si stima lattato dalle Muse, nè va sire di tutti i poeti, ma poco intendendosi del suo mestiere fansi schernire, e rimansi a piedi degli altri. Nè dee dolersi, o maravigliarsi, se col tempo l’ignoranza disgombrasi, e si rischiara la mente degli uomini. Siagli conforto, avere per lo spazio di tremila anni seduto in cima del Parnaso con corona in fronte, e con scettro in mano. Nè gli paja scarsa la gloria sua, se Platone se Aristotile, e se Ippocrate ed ogni scrittore famoso ha con suoi versi smaltate le proprie scritture pomposamente. Di presente onori la verità, e consenta che l’altrui favole trionfino, ed i costumi e le sentenze de’ moderni poeti risplendino meglio, e la favella con maggior lume sfavilli. E noi