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alla sembianza di monti. Valse vittoria sì grande a sgomentare i feroci rubelli di Dio; e però nel suo volere si riposero Tornais, Ulste, Assele, Rupermonda, Alosto, Igri, Brugia, Gante, Maline, Venlò, Grave, Enclusa, città per se ciascuna bastante ad esser materia di una guerra compiuta. Ma non ci perdiamo a mirar stelle avendo davanti il lume del Sole. Anversa può dare impaccio a tutte le Muse, e stancare Elicona. Quivi propriamente parlando, e senza iperbole, si posero i fiumi a giogo; quivi fecesi schermo a' fulmini, e contrasto a' tremuoti; e se altrove giammai furono spade guerriere vaghe di sangue furono quivi. Finalmente ammazzati i campioni di Anversa, il Farnese, vincendola di miseria tornolla felice. Fu poi tratto di Fiandra in Francia a colà manifestare l'eroica sua virtù; perciocchè allora non meno feroce eresia quivi guastava la Chiesa di Roma. Che deesi qui dire per me? Dirò ch’ei trasse Parigi dalla gola di orribili mostri, e fecene rimanere digiuno il Navarrese, il quale la vagheggiava siccome sua; nè altro addivenne dell'ampia città di Roano; ed io preveggo con l’animo, che se poeti porranno unqua la mano a questi soggetti, il mondo maravigliando ascolterà nuovo Simoenta, e nuovo Scamandro, carreggiando la Senna Francese co' fiumi di Troja. Ma noi trattando la forma degli Eroi, e figurandola, non saremmo ingrati a noi medesimi, non esprimendo ii nome di Ambrosio Spinola? Questi in gioventù bramoso di gloria, e non ed oggidì gloriosissimo, non comandato da suo Signore; perciocché nato in città libera, non aveva Signore salvo le leggi; ma di suo buon grado volsesi alla guerra; nè fu a sospirigervelo vaghezza di adunare oro; perciocché di ricchezze era abbondantissimo, nè dovea travagliare per farsi chiaro, essendo il suo sangue Illustrissimo; nella dunque commosse il suo animo, salvo il vero desiderio della virtù, e ragionevole brama di vestirsi l'abito della Fortezza, e per tal cammino giungere al tempio d'eroica immortalita; quinci avviossi nelle Fiandre, ove altro incendio di guerra suscitavano le nazioni rubelle del Vaticano, e quivi tutta l'etate fiorita fu da lui spesa in vigilie, in affanni, in pericoli, e nazioni soggiogò, e cittadi raccolse in fede, e de' capitani, e de' duci trionfo, talmente che puossi con verità affermare, che prima, che a general capitano ci fosse eletto, era degno, che si elegesse a simile grado. E ciò chiaramente appare, poichè tanto perfettamente l'esercitò. Egli per esperienza cauto, per valore ardito, per industria felice per tutto questo sempre invincibile; laonde per ecellenza de' suoi meriti interviene, che avvegnachè altamente si tenga ragionamento di lui, non pertanto bassamente si loda, e dando di sè maraviglia a ciascuno, non sente da niuno lodarsi maravigliosamente. Io non pertanto voglio provarmi; ma che dissero? Troppo lunga tela mi farebbero tesse le sue gran prove. Come posso fermare le mie parole su Clitaberga; su Grolo? su Linghe? su Battendone? Mille lingue stancherebbero l'assedio di Breda. E che dirassi di Ostenda? Ostenda non guerra, ma dottrina di guerreggiare: non assedio, ma scuola di milizia, la quale sforzata per modo tanto ammirabile disperarono i nemici ogni difesa alla loro salute, e gli amici disprezzarono ogni contrasto alle loro vittorie. Ha per tanto goduto Italia a nostro tempo, tali guerrieri in campo, quali se gli formano i maestri in mezzo alle scuole. E se di loro facevasi dono al mondo, quando gli scrittori furono o più grati, o meno oziosi, essi non sarebbero senza epicedj, o senza encomi eccellentissimi. Avrebbero gli istorici descritte le loro vite con altezza di stile, e le loro azioni registrate in carta ad onta del tempo, e dell'umana malignità; e non meno i poeti avrebbero còlti odori sacrati per imbalsamare nomi sì cari, e conservarli intieri per anni non numerabili. Ma noi oggidì dormiamo profondamente, e se amore non ci scuote con sua faretra, amiamo nostro letargo. Cosa amirabile, e quasi abbominevole. L'oro di una chioma, le rose di un viso, l’ostro di due labbra, esercita le celere, sicché ad ogni ora ne assordano, e per l’invitta Fortezza di questi eccelsi guerrieri, non è lingua la qual si snodi! Il loro nascimento più che il nascimento del Sole ha rischiarato, e rischiara il cielo di Italia, e per l'Italia dissi la loro fama in potere di Lete, che la divori? Hanno in battaglia versato il sangue, onde noi siamo onorati, e non si trova, chi per loro onore rinversi inchiostro? Essi diedero di piglio all'armi, e non è chi per loro pigli una penna? Ah cosa da non udirsi! Abbandonare in silenzio una infinita virtù? A torto si nominano i nostri poeti abitatori del Parnaso, ed in vano fanno corte alle Muse. Le Muse figliuole della Memoria eternano nel cielo il nome di valorosi, e comandano in terra a' suoi devoti che lo tengano vivo a forza di canti. Ora con qual viso deono i poeti farsi vedere da esso oro, o loro mostrare la fronte? Io, se non è vanità parlare di sè medesimo, dommi in questo affare, non già meritevole per opra, ma per volontà non reo; che mentre bastommi l'età, feci prova di onorare cantando i valorosi Cavalieri, ed ora ben vecchio faccio querele perchè altri non gli onora. E per certo amerei che le mie parole fossero, come Omero le chiama, alate, e volassero lungo il Sebeto, e sulle rive del Tevere, e d'intorno all'Arno, e per le campagne del Po; e quivi rompessero il silenzio di chi tace, e consigliassero a pentirsi chi canta di vanità. Ma se pertanto non sono bastanti, io mi appago, che elle risuonino per questa sala, piena d'ingegni per sè forti a celebrare la virtù, e destare altrui secondo il dovere a ben celebrarla. Ne crediate, Signori, che di poca cosa si frodino gli uomini forti, temendo privati i loro pregi de' fregi delle scritture. Ma crediate, che se con Cerbero in Val di Tenaro, e con l'Idra in Serna, e col Leone in Nemea fu mestiere della clava di un Ercole, non meno contra l'ozio, e contra le spume attossicate dell'invidia sono richieste prose, e versi dettati dalle Muse, e dal favore di Apolline. Valor tacciuto è

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