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dolcezza di alcuna leggiadra poesia. E non sarà fuor di ragione. Già i segreti del Liceo e dell'Accademia sogliono qui manifestarsi ad uomini i quelli sono adottali dagli Aristoteli e dagli Ippocrati; dunque, richiamando la mente vostra da quelle cime, io condurrolla a riposarsi tra la soavità delle Muse: e perché tra i nostri poeti niuno ce n’ha, il quale abbia più grazia con le anime gentili che il Petrarca, a lui mi appoggierò. E perché, secondo la unversale sentenza, egli avanzo sè medesimo nella Seconda Parte delle sue Rime, tra queste io ho scelto un Sonetto, e intorno lui andrò ragionando quanto la fievolezza mia consentirà. Il Sonetto è questo:

Se lamentar augelli, o verdi fronde
     Mover soavemente a l’aura estiva,
     O roco mormorar di lucid'onde
     S’ode d’una fiorita e fresca riva,
Là v’io seggia d’amor pensoso e scriva;
     Lei che ’l Ciel ne mostrò, terra n’asconde,
     Veggio, ed odo, ed intendo ch’ancor viva
     Di sí lontano a’ sospir’ miei risponde.
Deh! perché innanzi ’l tempo ti consume?
     (Mi dice con pietate); a che pur versi
     Da gli occhi tristi un doloroso fiume?
Di me non pianger tu: ch'e' miei dí fersi
     Morendo eterni; e nell’interno lume,
     Quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi.

”Per ben conoscere se il Petrarca come poeta innamorato cantò dirittamente in si fatti versi, panni che sia bene cominciare di qui. Hassi, o Signori, per costante, che Amore sia desiderio di bellezza, ma questo si fatto desiderio non può divenir Amore senza l'aiuto della speranza che prende un'anima di goderla: ma se veduta una cosa bella, vaga di possederla, pareggiatasi seco, spera di farla sua e poterla godere, allora il sì fittamente desideroso, è e puossi appellire innamorato. E perchè io favello di Amore, per intender i consigli di poeta innamorato io confermerò i miei detti pure con l'autorità de'poeti.

”Non credo che si legga Amore più famosamente cantato di quello Medea, e di quello di Didone; e certamente Apollonio Rodiano dice, che io Coleo, nel palagio di Aela a maraviglia splendeva Giasone di bellezza, e che Medea, nascostamente guardamolo, infiaminavvasi e usciva di sè medesima. Virgilio canta, che alla presenza di Didone, Enea apparve di persona e di faccia sembiante agli Dei: cotanto Venere sua madre avea compartito di bellezza alle chiome, e allo splendore degli occhi! Ecco come due chiarissimi poeti, rappresentando lo innamorati di due reine celebratissime, ne danno cagione alla bellezza. Per quanto pertiene alla speranza, dice Virgilio che Anna, favellando a Didone, diede con sue ragioni speranza alla mente dubbiosa, la quale era tra due; di che ella prese risoluzione di amorosamente trattare quello straniero e pregiato barone. Spemque dedit dubine menti, sono le parole del gran poeta in quel luogo. Condotto a questo termine l’affetto amoroso dal desiderio e dalla speranza, egli sale al colmo, e divien perfetto per la forza di un perpetuo pensamento, il quale sempre girasi intorno alla bellezza desiderata. Questo fisso pensamento, non mai discompagnato dall'amante, appo Virgilio, ha nome cura:

At regina gravi jamdumtum sancia cura.


Leggiamo nel principio del quarto ed altrove:

Non licuit thalomi expertem sine crimine vitam
Degere more ferae, tales nec tangere curas.


Ed altrove:

At non infelix animi Phoenissa nec unquam
Solvitur in sommos oculis, aut pectora noctem
Accipit


E dando ragioni di si grave vigilia, egli soggiugne: Ingeminuant curae.

”Or per tal guisa vinta, l’anima amante sbandisce da sè tutte le altre rimembranze, e alla disiata bellezza rivalgosi con tutta sua forza perpetuamente. Non mi lascia mentire Teocrito, il quale fa dire a contadinella innamorata, che tuttoché il pelago tacesse e tacessero i boschi, non taceva il suo cordoglio, ma distruggerla un fuoco per colui che lei dispregiava. Lasciasi chiaramente intendere Apollonio Rodiano, il quale canta, che Medea arsa per la bellezza di Giasone non prendeva sonno per la notte profonda, tuttoché anco una madre soglia chiudere gli occhi dolenti sopra i cari figliuoli sepolti. E se pure infievolita dagli affanni un’anima innamorata si lascia in possanza del sonno, non sapere lutto questo partirsi, e non si diparte, sognando, dalle sue cure. Narra Omero, che stanco Achille per la caccia data ad Ettore, al fine chiuse le palpebre, ed allora Patroclo gli si fece vedere con quegli occhi splendidi, con quelle vesti usate, e con quella usata sua voce, nè solamente gli apparve, ma seco fece querela e seco tenue un breve ragionamento. Né tace Virgilio di questa passione sì grande, ma ci racconta che Didone vagheggiava e udiva Enea, quantunque gli fosse lontano. Dice, ch’ella ripensava ad ogni ora sopra la fortezza di quel cavaliere, e sopra la nobiltà, che nel petto le erano impresse lo sembianze e le parole di lui, afferma maravigliando, che in obblio erano poste le torri, nè si provvedeva alle armi, e i porti e le muraglie rimanevano addietro:

Pendent opera interrupta, minaque
Murorum ingentes, acquatuque machina Coelo


Nè e da maravigliare di ciò, perchè l'anima innamorata non è vaga di vile o di popolaresca cosa, anzi è bramosa della bellezza, la quale, secondo l'opinione di grandissimi uomini, è uno splendore di Dio. Ma, per non salire tant'alto, contentiamoci di dire, ch'ella nasce da buona proporzione delle parti fra loro, e si fatta proporzione delle parti fra loro, e si fatta proporzione non può, salvo dall'umana ragione, essere compresa. È dunque dirittamente fortissimo il desiderio della bellezza nell'uomo, poich'ella è solamente acconcia ad es-

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