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del chiabrera 271

Mentre del Redentor givano sparsi
     Per Siria i pregi, anzi Satan s’uniro
     Dentro da’ regni tenebrosi ed arsi
     I rei ministri d’immortal martiro;
     Da quegli iniqui egli bramò contarsi
     L’umane colpe, lor sovran desiro;
     E quanto fosse, esaminar volea,
     48Vêr Dio la Terra peccatrice e rea.

Aspri Demon dagli Emisperi Eoi,
     Là dove lampi d’ôr l’Alba diffonde,
     E di là dove stanco i destrier suoi
     Febo nel grembo di Nettuno asconde,
     Erano apparsi, ed onde Nilo i tuoi
     Alti principj manifesti, ed onde
     Borea gonfio le gote, autor di gelo,
     56Move soffiando, e rasserena il cielo.

Giù negli orridi abissi oltre Acheronte,
     Oltra i nembi di Stige, atra Palude,
     Stansi i regni di Dite, e Flegetonte
     I varchi attorno innavigabil chiude,
     Furie d’angui e di tosco irte la fronte,
     Vegghian mai sempre trascorrendo, e crude,
     D’acuti ferri ambe le palme armate,
     64Vietano indi faggir l’alme dannate.

Per entro assorbe, e rimbombando incende
     Atro bollor di atroce fiamma eterna;
     Ma là nel mezzo apresi tetra, e fende
     L’inestinguibil campo ampia caverna;
     Tanto fra balze e precipizi scende,
     Duro a pensarsi, la spelonca inferna,
     Quanto nel gran sentier gira distante
     72Dal volto della terra il ciel stellante.

Dell’ima tomba nell’orribil fondo
     D’Erebo è il centro, e fieri tuoni, e venti
     Scuotonlo intorno, e di sozzure immondo
     Il tempestano ognor piogge bollenti:
     Ombra caliginosa, error profondo
     Quegli antri ingombra d’ogni luce spenti,
     Se non dan lume al formidabil loco
     80Sulfurei lampi di funereo foco.

Quivi empio, atroce oltre l’uman pensiero,
     Sotto giogo immortal d’arse catene,
     Giaceasi il re del condannato impero,
     Anch’ei dannato ad ineffabil pene:
     Che agli uomini del ciel s’apra il sentiero,
     Ha cotanto dolor, ch’ei nol sostiene,
     Vorria stato cangiarsi all’universo,
     88E freme e latra in gran furor sommerso.

Men suona incendio per foresta alpina,
     Fatto più fier da’ boreali orgogli,
     Men sotto freddi giorni onda marina,
     Che muova assalto contra immobil scogli,
     Men torrente, che in valle aspro ruina;
     Ma pur tra quegli immensi empi cordogli,
     Che udir volesse, con le man fe’ chiaro,
     96Ond’alto grido le crud’alme alzaro.

Ciascun s’avanza, e con alteri accenti
     Narrava istoria di mortali errori,
     Diceansi colpe di disdegni ardenti,
     E larghi esempi di lascivi amori:
     Spietati oltraggi di superbe menti,
     Rapine ingorde degli altrui tesori:
     E tanti rubellanti al re celeste
     104Di bassa plebe, ed onorate teste.

Quando infiniti le divine offese
     Già dispiegate avean, come suoi vanti,
     Levossi un mostro, e che sovrane imprese
     Contar dovesse, egli facea sembianti:
     Dall’arsa fronte, e dalle guance accese
     Disgombrò con furor gli angui fischianti,
     E dalle labbra di rio tosco asperse,
     112E sull’orrido tergo ei gli cosperse.

Poi del Tartareo re, fatto bramoso
     D’udirlo, inchina il portentoso aspetto,
     Al fin con mugghio orribile odioso
     Sospinse il suon dall’infiammato petto:
     Giust’è, che altier sen vada, e gloriose
     Ciascun di quei che insino ad ora han detto:
     Certo di gloria, e d’ogni onor son degni,
     120Tant’alme han tratte a tanti falli indegni.

Or me, ciò che dirò non sol rischiari
     E Te, che hai di noi tutti alto governo,
     Ma sia gran specchio, ove mirando impari
     Immense colpe suscitar l’inferno:
     O degno, a cui nel mondo ergansi altari,
     Grande di Dite regnatore eterno,
     Già d’antichi parenti attorno all’acque
     128Del Galileo Giordano un fanciul nacque.

Nè solo fu per la canuta etade,
     Mal usa in terra a generar famiglia,
     Ma pur per altro alle Giudee contrade
     Il natal di costui gran meraviglia;
     Crebbe con gli anni, e sempre alla bontade,
     E fisse alla virtude ebbe le ciglia,
     E sempre volse ad ogni calle il tergo,
     136Che lunge andasse dal celeste albergo.

Schifo del vulgo e della nobil gente,
     Elesse tra foreste ermo soggiorno,
     Ove il solean nudrir l’onda corrente,
     E le dure erbe, ch’egli avea d’intorno;
     E sempre o pur gelato, o pure ardente
     Per la varia stagion volgesse il giorno,
     Egli amò ricoprirsi i membri ignudi
     144Con peli di cammello ispidi e crudi.

Così romito in volontarj affanni,
     Tra caldissimi prieghi a Dio cosparsi,
     Scherniva il mondo, e da’ suoi tanti inganni
     Puro e candido al Ciel seppe serbarsi;
     Ma pervenuto in sul bel fior degli anni,
     A’ cupid’occhi altrui volle mostrarsi
     Lungo il Giordano, e col fervor de’detti
     152Empiea di zelo e di giustizia i petti.

Corse la fama sì, che a schiere a schiere
     Se ne giva appo lui gente infinita,
     Turbe vaghe dell’ôr, turbe guerriere,
     E tutte a non perir chiedeano aita:
     Egli or con piane voci, or con severe
     Correggea di ciascun l’ingiusta vita,
     E gli inviava agli stellanti chiostri;
     160Gran struggitor di questi imperj nostri.

Qui sul pensier di così grave offesa,
     Che far doveasi? a che voltarsi il core?
     Vergogna universal non far contesa;
     Ma per contesa fargli onde il valore?
     Pur dove travagliosa è più l’impresa,
     Ivi impiegarsi è più vivace onore:
     Quinci ingiurie si gravi io mal sostenni,
     168E per tal modo a vendicar men venni.