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160 poesie

LXIX

Che a Spagna orgoglio, e colla man possente
     Scemasse a Libia Scipïone impero,
     Che il rozzo Elvezio, e che il Francese altero
     4Del gran Cesare a’ piè fosse dolente:
Che appianasse Pompeo per l’Orïente
     Alle Romane insegne ampio sentiero,
     Che fiaccasse de’ Cimbri al popol fiero
     8Mario le corna a’ nostri danni intente,
A noi che val, se dalla gloria i cori
     Torciamo all’ozio, ed i guerrieri acciari
     11Cingiamo sol per apparire adorni?
Certo le palme, e gl’immortali allori,
     Onde quegli alti Eroi splendono chiari,
     14Ci fan corona di vergogna e scorno.

LXX

Che d’un guerriero al trapassar le voci
     Alzi la plebe, e lo dimostri a dito,
     Gridando: ecco il possente, ecco l’ardito
     4Animo invitto ne’ perigli atroci:
Precorse sullo Scalde i più veloci
     Precorse delle trombe il fiero invito,
     Sull’Istro argine fe’ col sen ferito
     8All’inondar degli Ottoman feroci:
Su, che la nobil fronte or s’incoroni:
     Egli raccolse il sempiterno alloro,
     11Cosperso di bel sangue entro i nemici.
Che altri d’un cavalier così ragioni,
     Fate, Italici cor vostro tesoro,
     14Se no vivrete in servitù mendici.

LXXI

D’Arabe gemme, e di tesor fregiarsi,
     E leggiadre bandir giostre amorose,
     E sembianze scolpir d’Avi famose
     4Sono vanti di piuma al vento sparsi,
Di mattutine trombe al suon destarsi,
     Ed armato vegghiar notti nevose,
     Intrepido affrontar strida orgogliose,
     8E di nemico sangue il sen bagnarsi,
È vera gloria: a così nobil segno
     Degli antichi splendor per farti erede,
     11Volgi, Italia magnanima, i desiri.
Africa, Europa, e d’Orïente il regno
     Furo de’ tuoi maggiori inclite prede,
     14Ciò che ne godi, tu medesma il miri.


EPITAFFJ


I

PER IL SIGNOR FRANCESCO CINI.

Non spargete sospir, diletti amici,
     Non piangete di me: non era vita
     Quella veracemente onde fui tolto.
     Vita questa è da dir, che oggidì vivo
     In pace eterna, ove desire e gioja
     Senza alcun fin vanno compagni insieme:
     Così commise dopo morte il Cini,
     Che s’intagliasse il suo sepolcro: e certo
     Con poco di ragion prendiam vaghezza
     Di durar lungamente in questo mondo,
     Mondo, che non tien fede, e che ne adesca
     Con promessa di bene, ond’egli è privo.

II

PER IL SIGNOR RICCARDO RICCARDI.

Mio nome fu Riccardo, e gli occhi apersi
     In grembo alla bellissima Firenze.
     Abbondai di ricchezza, e non per tanto
     Giammai da me si scompagnò valore,
     Però non sia chi di mia morte pianga.

III

PER IL SIGNOR FRANCESCO RASI.

La bella cetra, che scolpita splende
     In questi marmi, ti può far sicuro,
     Che il Rasi qui sepolto era maestro
     Dell’amabile arnese. O lieto l’Arno,
     E lieto il Mincio, che d’udir fu degno
     Il suon soave, che non mai sentiro
     Le bellissime rive dell’Eurota
     Negli anni antichi, e s’egli alzava il canto,
     Sorpresi all’armonia dell’aurea voce,
     Taceano i venti e s’arrestavan l’onde,
     E chinavano i pin l’altere cime:
     Perocchè egli solea, non la faretra
     Dell’alato figliuol di Citerea,
     Ma cantar degli eroi l’alme corone.
     Or voi cortesi, che per via passate,
     Di voi prendavi duol: l’alte lusinghe
     Delle Sirene e dell’Aonie Muse
     Mai più non siete per udire in terra.

IV

PER IL SIGNOR JACOPO DORIA.

Perchè non fu nessuno unqua più deguo,
     Che si onorasse, però qui rimiri
     Tutto ripien di carraresi marmi.