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CANTO XVII 93

290e un can levò, che quivi giaceva, la testa e le orecchie.
Ed Argo esso era, il cane d’Ulisse. Allevato ei l’aveva,
senza goderne: ché prima dové partire per Ilio.
I Proci per l’innanzi soleano menarlo alla caccia:
i caprioli e i cervi cacciava, e le capre selvagge:
295messo or da banda, e privo del signore, ch’era lontano,
giacea sopra un gran mucchio di fimo di muli e di bovi
ch’era ammassato all’uscio dinanzi; ed i servi d’Ulisse
qui lo prendean, per dare l’ingrasso ai suoi vasti poderi.
Il cane Argo qui dunque giacea, tutto pieno di zecche.
300E appena, ecco, s’accorse d’Ulisse che gli era vicino,
scosse la coda, entrambe lasciò ricadere le orecchie;
ma poi forza non ebbe di farsi dappresso al padrone.
E questi, le pupille distolse, una lagrima terse,
senza ch’Eumèo lo vedesse, ché seppe nascondersi; e chiese:
305«Eumèo, gran meraviglia che giaccia nel fimo un tal cane!
Bello d’aspetto è certo: però questo dir non saprei,
s’egli, oltre a questa bellezza, veloce anche fosse nel corso,
oppur se come i cani da mensa egli fosse, che solo
per la bellezza loro li allevano i loro padroni».
     310Tu allora, Eumèo, fedele porcaro, cosí rispondevi:
«Pur troppo, il cane è questo d’un uomo che morto è lontano.
Deh!, se tale egli fosse tuttora di forme e di forze
quale qui lo lasciò, partendo per Troia, il signore,
ben la sua forza e il vigore vedendo, stupir tu dovresti.
315Ché niuna fiera a lui sfuggire potea negli anfratti
della profonda selva, quand’ei la scovasse: ché troppo
era sagace dell’orme. Ma ora l’opprime sciagura.
Il suo padrone è morto lontano; e le ancelle incresciose
cura non n’hanno piú: ché i servi, se i loro signori