Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/39

36 ODISSEA

440dona una cosa, e un’altra la nega: ch’ei può ciò che vuole».
     Detto cosí, le primizie bruciò per gli eterni Celesti;
e offerse, dopo avere libato, il purpureo vino
a Ulisse, distruttore di Troia, che a mensa sedeva.
E il pane ad essi porse Mesaulio, che aveva il porcaro
445compro col suo denaro, mentre era lontano il signore,
che la regina nulla ne seppe, né il vecchio Laerte:
coi suoi denari proprio l’avea comperato dai Tafi.
Sulle vivande imbandite gittarono tutti le mani.
E poi ch’ebber placata la brama del cibo e del vino,
450tolse dinanzi a loro gli avanzi Mesaulio; e di vitto
sazi, di carne e di vino, si volsero gli altri a dormire.
E sopraggiunse la notte deserta di luna; e pioveva
senza posa, e spirava la furia di Zefiro, sempre
d’acqua foriero; ed Ulisse parlò, per provare il porcaro,
455se si togliesse il gabbano per darglielo, oppure esortasse
altri a far questo, perché di lui si prendea tanta cura:
«Eumèo, tu, adesso, e gli altri compagni prestatemi orecchio:
io voglio fare un voto, narrarvi una storia: ché il vino
mi sprona a ciò, capitoso, che suole istigare il piú savio
460al canto, alle soavi risate, alla danza, e lo spinge
a dir tali parole che meglio sarebbe tacere.
Or che alle ciarle ho dato principio, non voglio troncarle.
Deh! Se giovane io fossi, se fossi tuttora gagliardo
come quel dí che sotto le mura di Troia un agguato
465tendemmo ed eseguimmo! Ulisse col re Menelao
erano guida, ed io, ché seco mi vollero terzo.
E quando alla città giungemmo, e all’eccelse sue mura,
quivi dintorno alla rocca, qua e là per i fitti cespugli,
tra la palude e le canne, stavam rannicchiati nell’armi.