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CANTO V 103

vedon la terra, ov’ei disse che stato sarebbe il mio scampo.
No, farò invece cosí, che mi sembra il partito migliore:
sin che le travi insieme rimangono strette in compage,
io dove son rimarrò, pazïente di questo travaglio.
350Ove poi qualche maroso per mezzo la zattera spezzi,
allora nuoterò: ché partito migliore non resta».
     Mentre volgeva nel cuore, nell’anima, tali pensieri,
lo scotitor della terra Posídone, spinse un gran flutto
orrido, immane, che tutta coperse la zattera, e Ulisse
355fuor ne sbalzò. — Come un vento gagliardo che investe un gran mucchio
d’aride spighe, e tutte lontano qua e là le sparpaglia,
cosí le grosse travi quel flutto disperse. Ed Ulisse
una inforcò de le travi, sí come guidasse un corsiere,
lungi le vesti gittò che gli diede la diva Calipso;
360súbito poi sotto i fianchi si stese il vel d’Ino, ed anch’egli
prono precipitò giú nel pelago, e stese le braccia,
per sostenersi nuotando. Lo vide il Signore possente
ch’agita il suolo, e, fra sé cosí disse, crollando la testa:
«Vattene errando pel mare, sinché tu non giunga fra genti
365care ai Celesti: t’aspettano un mondo di guai; ma sin d’ora
credo che tu non ti possa lagnare di ciò che ti tocca».
     Cosí disse, sferzò le lucide groppe ai cavalli,
e s’avviò verso Ega, dove inclito sorge un suo tempio.
Ma di ben altro avviso fu Atèna, figliuola di Giove.
370A tutti gli altri venti precluse il cammino, ed impose
che desistessero, e tutti restasser nei loro giacigli;
e suscitò solo Bora veemente, e dinanzi gli ruppe
l’onde, perché tra i Feaci, maestri di remi, giungesse
Ulisse, ai Numi uguale, schivando le Parche e la morte.