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PREFAZIONE XI


trovati, e alcuni quasi integri, di fronte agli epinicî scapitano. E, ben ponderati tutti gli elementi, mi pare si possa concludere che il tempo abbia trattato anche la poesia di Pindaro come tutta l’altra poesia greca, conservando il meglio, e lasciando cadere il meno buono: che dunque gli epinicî fossero proprio la migliore opera di Pindaro; e che il motivo piú ricco e dominante del suo genio poetico fosse quello appunto che negli epinicî soverchia di gran lunga gli altri: cioè la contemplazione e la meditazione mitica.


E il soverchiare di questo elemento non deriva già dalla materiale proporzione fra le parti mitiche e le altre; ché per questo aspetto Bacchilide potrebbe quasi superare Pindaro; bensí per la ricchezza, per la intensità della materia mitica pindarica. Bacchilide, dovendo cantare qualche vincitore, sceglie, con evidente riflessione, il mito che mostri maggiore attinenza col soggetto, e lo svolge. Invece, alla fantasia di Pindaro, dato appena il fatto da cantare, si affolla una quantità enorme di miti, che sembrano quasi gareggiare per ottenere espressione. Il poeta vi si immerge con gioia, e talora li fa sfilare, incerto a quale debba dare la preferenza:

L’Ismeno, o Melía fuso d’oro,
o Cadmo, o la sacra progenie degli uomini
cresciuti dal suolo,
o Tebe dal velo di cíano,
o la Forza, che tutto ardisce, d’Èracle,
o Dïòniso, gloria che infonde ebbrezza,
o d’Armonia braccia candide
canteremo le nozze?