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tatura, e quando gli càpita fra i piedi un autore novellino, lo riceve con un certo sussiego, lo ammonisce paternamente sui pericoli della scena, sulle grandi difficoltà dell’arte e sui disinganni serbati alle false vocazioni, e finisce il più delle volte col consigliarlo in buona maniera a dedicarsi piuttosto alla fotografia o alla fabbricazione delle calze espulsive e dei cinti erniarj.

Durante questo colloquio, il capocomico ha la delicatezza di chiamare il neonato autore coi vezzeggiativi carezzevoli di «figlio mio» e di «figlio caro»: se poi arriva fino al punto di chiamarlo addirittura «mio ottimo e buon amico» allora è segno che ha proprio l’intenzione di levarselo subito di torno e di dargli un congedo definitivo.

Viceversa poi, il capocomico che fa cattivi affari è sempre di maniche larghe, anzi di maniche larghissime, come i confessori delle donne giovani e devote: fa buon viso a tutti e accetta a occhi chiusi tutti i componimenti drammatici, che gli vengono presentati, buoni, mediocri, o fischiabili che siano, purchè possa levarsi il gusto di scrivere su i cartelloni affissi alle cantonate: Commedia novissima, originale, l’Autore assisterà alla rappresentazione.

Se poi, disgraziatamente, il povero autore è fischiato, pazienza! Un morto di più o di meno sulle tavole del teatro non fa caso; specie sulle tavole del teatro italiano, dove l’apoplessia drammatica è una malattia indigena, come la febbre gialla nelle provincie messicane.