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stia male in gambe anche lui, lo ajuta: e tutt’e due, appuntellandosi l’uno con l’altro, escono dal Caffè. E camminando là là rasente al muro raggiungono a un po’ per volta quell’estremo grado d’ondulazione, durante il quale, si direbbe che il corpo umano, ribellandosi alle leggi eterne dell’equilibrio, e rinnegando i primi rudimenti della geometria, si studia di dimostrare che la linea curva è la linea più corta, per andare a cascare in mezzo alla strada.

Difatti nello scendere dal marciapiede, Frusone misura male il passo, e giù!

— Accidenti alle bucce di fico! — grida battendo la groppa sul lastrico.

— Che bucce!... qui non c’è bucce — dice Pistagna, chinandosi e guardando per terra.

— Eppure, una buccia la ci dev’essere.

— Ti dico che la non c’è.

— Allora vuoi dire che te la sei messa in tasca.

— Sai la buccia qual’è? Egli è che tu hai bevuto due libbre di zozza; si sente dal fiato. A starti accosto, tu pai un lume a petrolio.

— Non dico di no: ma sai chi è che mi ha dato alla testa? Egli è che nell’ultimo bicchierino il ragazzo di Nanni mi ci ha messo due gocciole d’acqua. Vedi, per me non c’è una cosa che mi faccia ubriacare come l’acqua imputabile.

— Potabile, ignorante!

— Potabile o imputabile l’è lo stesso: io ho sempre il vizio di metterei un g di più. Vien via, Pistagna: dammi una mano, mi vo’ rizzare.