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180 novella lxxxiii.

derio di mostrare quanto sapea a que’ giudici novellini che l’aveano contro ragione biasimato, postosi con l’arco dell’osso e con quanto intelletto avea, fece un ritratto così bene armonizzato e tale, che non vi era arte umana che potesse censurarlo in un capello. Il cavaliere lietissimo in suo cuore di sì bell’opera, e parendo a lui medesimo che non vi potesse essere lingua cotanto prosontuosa che vi trovasse materia da biasimare, fu, come la prima volta, agli amici suoi, e gli guidò alla casa del pittore. Non ebbe il secondo ritratto sorte migliore del primo, e forse peggiore; imperciocchè, oltre a molti difetti che in esso ritrovarono, e alla poca somiglianza che diceano che avea, incominciarono anche a riflettere che quelle sono cose le quali quando non vengono bene al primo, le non riescono mai più; che la fantasia del pittore riscaldata e confusa non potrebbe più fare quello che non ha prima potuto netta e vigorosa; e facendo un lago di dotte osservazioni generali, delle quali ogni uomo ha grande abbondanza, misero nell’animo del cavaliere la disperazione di non poter avere mai più un ritratto che gli somigliasse, e in quello del pittore un veleno che gli schizzava pegli occhi. Non fece però, come avrebbero fatto alcuni, i quali non possono ritenere celato il dispetto, e si credono col quistionare di vincere la prova; ma ristrettosi nelle spalle per allora, pensò fra sè un modo di far sì ch’essi medesimi confessassero la propria ignoranza, e si pentissero dell’aver giudicato diffinitivamente di quello che non sapeano. Per la qual cosa, quando furono partiti, rimasosi col cavaliere solo, il quale tra sè si dolea della sua mala sorte, gli cominciò a parlare in tal modo: Cavaliere, quantunque io sappia che la capacità dell’uomo non ha in sè tanto vigore che la possa giungere nelle arti a far cosa che non abbia in sè difetto veruno, pure quando io penso alla mia passata vita e a quella di coloro che hanno così liberamente sentenziata l’opera mia per non buona, spererei di dover essere stimato miglior giudice di una tela dipinta, ch’essi non sono.