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bra di pan cruschetto da sfamare i puttini; si tratta che quella donnina è venuta ad una parziale transazione colla severità di sua virtù. E forse di lì ad un momento sentiranno gridare due, tre numeri, di quelli appunto scritti nel loro polizzino; e per trenta o quaranta scudi che di giovedì in giovedì buttarono a minuto nel bugiardo botteghino, andranno contenti come pasque, a riscuoterne tre, quattro, fors’anche venticinque uno sopra l’altro, gridandosi fortunati, e pagando da bere a tutti gli amici: già impromettono, già fanno i più begli assegnamenti su quei denari. Ma allorchè compajono sul palco quei signori a far con tanta serietà un giuoco, con tanta onestà uno scrocco; quando l’innocenza mette la destra nel bossolo dell’illusione; più non s’intende uno zitto: cheti come pesci, tengono il respiro: le bocche, gli occhi stanno incantati verso il palco, verso l’urna, verso l’orfanello.

Questa similitudine, che senza sconcio si sarebbe potuta ommettere o almeno scorciare, vaglia a farvi intendere quel che succedeva nel cortile del castello di Barzago. Al frastuono di prima era succeduto il curioso silenzio dell’aspettazione: fissi gli occhi, proteso il mento, levati sulle punte dei piedi, stavano i villici attenti alla porta per cui era entrato il guardacaccia, figurandosi ad ora ad ora vederlo ricomparite... con lui una donna; e qui la fantasia di ciascuno sbizzariva, immaginandola o pallida estenuata come Lazzaro quatriduano, ovvero ancor bella fresca, raggiante, per uno dei tanti miracoli, sparsi intorno dall’ignoranza, dai cantastorie e dai frati.

Quando improvviso rompe quel silenzio un fragore come di fulmine: tremò il castello: cento teste