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in un cattivo muro! mah!» e ti lasciano più curiosa di prima.

Al tocco di domani appostiamola. Ecco, all’usato esce; in fila un viottolo che sbocca alla borgatella qui vicinissima, e lungo la via essa pilucca dalle spinose fratte il lazzo prugnuolo e le more, e se le mangia con pan di melica, — sgigliola pane risecchito e more e prugnuoli, nel mentre si reca in mano intatta una scodella di minestra, la cui tepida fragranza deve agguzzarlene il desiderio.

Quella straducola riesce appunto alla sua povera casetta, sulla soglia della quale sta un uomo, strambellato nel vestire e pien di lordume, dondolandosi sopra un piede, appoggiato allo stipite della portella con una mano alla cintola, l’altra nel giubbone; e fuma una pippa di corno, e guarda. Tutto annunzia in lui la disadattagine e l’abitudine dell’ozio: scaruffati i capelli; sciamannata la giubba che slabbra da tutte le parti; grinzose le calze e a bracaloni; e dal suo occhio trapela quell’isvanita ilarità che sul volto improntar suole il turpe vizio dell’ubriachezza.

— Oh sei qui finalmente?» grida egli incontro alla Laurina, come appena la vede spuntare. «Ove diascole ti sei badata fin adesso? È mezz’ora che è scoccato il botto, ed io ho una fame che la vedo. Dà qua».

E così, brusco come rasperella, le toglie di mano la scodella, e si trangugia la minestra. La Laurina, cortese quanto sa, scusasi con lui, e lo carezza, e — Vedi? non la mangio io per darla a te.

— Oh sonate campane! vuol farsi merito d’una straccia di zuppa? Puh! bada a non sudare. Non è