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il socratismo 3


restabile, la quale anela al terribile come al nemico, al nemico degno con cui cimentare la propria gagliardia? da cui vuol imparare che cosa sia l’«aver paura»? Che cosa significa il mito tragico proprio presso i greci della migliore, della più vigorosa, della più valorosa età? E il mostruoso fenomeno del senso dionisiaco? Che significa la tragedia, che di quello è figlia? D’altra parte, ciò che uccise la tragedia, ossia il socratismo della morale, la dialettica, il tenersi contento e la serenità dell’uomo teorico; ebbene, per l’appunto cotesto socratismo non potrebbe essere proprio desso il sintomo del tramonto, della lassitudine, del morbo, della dissoluzione anarchica degl’istinti? E la «serenità greca» dell’ellenismo posteriore non potrebbe essere proprio essa non più che la porpora dell’occaso? Né la volontà epicurea contro il pessimismo essere altro che il rimedio preventivo del paziente? E la scienza stessa, la nostra scienza, ma sì, che cosa vuol dire in sostanza, considerandola come sintomo della vita, tutta la scienza? A che, peggio, donde tutta la scienza? Come? Il senso scientifico non è forse altro che un puro senso di paura, un sotterfugio davanti al pessimismo? Un sottile espediente di tutela personale contro, sì, contro la verità? Vale a dire, parlando secondo la morale, qualcosa come la codardia e la falsità? Parlando immoralmente, una furberia? O Socrate, Socrate, fu questo, forse, il tuo segreto? O tu, ironico misterioso, fu questa, forse, la tua ironia?