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176 capitolo ventesimo


in corso, ossia di far suo l’eloquio del giornalista e con la «leggera eleganza» del «trafiletto» folleggiare come una luminosa farfalla della scienza spicciola; con quale penoso sbalordimento la gente educata e conformata al presente andazzo intellettuale deve fissar gli occhi in un fenomeno che gli riescirebbe alquanto comprensibile solo per analogia, desumendolo dalle più profonde ragioni vitali del genio ellenico finora incompreso: nella risurrezione, cioè, dello spirito dionisiaco e nella rinascita della tragedia? Non esiste altro periodo artistico, in cui la così detta cultura e la vera arte furono tanto straniate e avverse l’una all’altra, quali le vediamo presentemente coi nostri occhi. Noi intendiamo il perché una cultura tanto fiacca odia l’arte vera; perché teme di venirne uccisa. Ma tutto un genere di cultura, quello socratico-alessandrino, dovrebbe pur morire alla fine, dopo che si è potuto striminzire in un culmine così leziosamente fragile come la cultura odierna! Se a eroi di tal fatta, come Schiller e Goethe, non riesci d’infrangere la porta magica che mena al monte incantato della grecità, se dei loro arditi cimenti nulla perdura, altro che lo sguardo nostalgico che l’Ifigenia goethiana dalla barbara Tauride manda sul mare alla patria lontana, che cosa mai resta a sperare agli epigoni di tali eroi, quando da una parte affatto diversa, non tocca da tutti gli sforzi tentati finora dalla cultura, ecco che la porta si apre da sé, tra le armonie mistiche della musica tragica risorta?