Pagina:Nietzsche - La Nascita della Tragedia.djvu/173


la condanna della tragedia 121


tare, che si volge a chi «non possiede molta intelligenza», e dunque non si volge ai filosofi: doppia ragione per tenersene lontani. Come Platone, egli la annoverava tra le arti seducenti che rappresentano solamente il dilettevole e non l’utile, e perciò esigeva dai suoi discepoli l’astensione e la rigida ricusazione di tali allettamenti non filosofici; con tale successo, che il giovine poeta tragico Platone, per diventare alunno di Socrate, buttò al fuoco le sue tragedie. E se vi erano talenti invincibili, che lottavano contro le massime di Socrate, pure la forza di queste, in uno con la preponderanza di quel suo portentoso carattere, era sempre abbastanza grande per sospingere la stessa poesia ad attitudini nuove, ignote fino allora.

Un esempio in proposito, e ne abbiamo parlato or ora, è Platone: egli che, certo, non è rimasto indietro al cinismo del suo maestro nella condanna della tragedia e dell’arte in genere, pure per assoluta necessità artistica dovè creare una forma d’arte che è intimamente collegata proprio con quelle già in voga e da lui disapprovate. Bisognava evitare a ogni costo, che potesse rivolgersi alla nuova opera d’arte la principale censura, che Platone moveva alla vecchia arte, di essere, cioè, l’imitazione di un’immagine fenomenica e di appartenere, dunque, a una sfera anche più bassa del mondo empirico; onde vediamo Platone studiarsi di andare oltre la realtà e di afferrare e rappresentare l’idea giacente nel fondo di quella pseudorealtà. Ma così il filosofo Platone