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Si fermarono in una radura battuta in pieno dalla luna, tendendo l’orecchio al dolce cantore. Ai loro piedi il capelvenere aggrovigliava l’ideale leggerezza delle sue foglie in una trina che sembrava d’argento e l’intero paesaggio riceveva dalla luce siderea quella particolare espressione di incanto che è propria della notte lunare.

Non sapevano risolversi a tornare indietro, poi che ogni senso della realtà li aveva abbandonati, sì che essi procedevano inconsci ed immemori.

I blandi rintocchi di un orologio li destarono dal sogno e questa voce quasi umana, mentre si credevano fuori del mondo, li fece trasalire.

— È il campanile di Lèzzeno, — disse Lilia.

— Lèzzeno?

— Un disgraziato paesello perduto su questa riva. Lo chiamano il paese della mala fortuna: d’inverno senza sole, d’estate senza luna.

Ippolito contò dodici ore seguendo l’eco dell’ultimo rintocco che andò a frangersi sull’ampia distesa del lago.

— Come dormiranno tranquilli gli abitanti di Lèzzeno!

Pronunciando queste parole Ippolito ebbe una rapida visione del paesello nativo, ma subito sparve travolta dal riso cristallino di Lilia:

— Se ci vedessero direbbero che siamo pazzi!