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228 Una giovinezza del secolo XIX


vendemmia. Tutto questo sì. Ma il bamboccione che scherzava sui ginocchi della zia Nina, il timido giovinetto che sognava di toccare con una pezzuola aerea il bianco lembo di un abito verginale, il neo ingegnere che non aveva mai passato una sera fuori di casa, lanciato così di punto in bianco nel bailamme di una officina genovese, capeggiando trecento operai di modi risoluti e d’ostica favella, era una cosa che non mi persuadeva. Egli invece partì tranquillo e sereno come per una partita di pesca, portando seco la nostra cara vecchietta, o vecchiorla, secondo il mio vizio inveterato di storpiare i nomi delle persone care.

I fatti, con mio felice scorno, diedero ragione a Stefano.

Accolto sulle prime con un po’ di diffidenza, quel foresto mingherlino dalla gentilezza di fanciulla, la sua franca condotta, la lealtà del suo procedere, gli conquistarono a poco a poco fabbrica e paese; i vecchi lo approvavano, lo stimavano i giovani, e le matrone con figlie da marito non gli lesinavano i loro complimenti. C’era però sempre la massa imponente di trecento operai da tenere in freno. Mio fratello si era fatto amare anche da loro sul principio di una giustizia al pari per tutti; ma della giustizia, al pari di tante altre belle cose,