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Patrizio. 285

Patrizio, rimasto solo, cercò cogli occhi il suo piccolo amico e lo scoperse quasi svenuto sulla sedia, soffocato in quell’ambiente a cui i suoi polmoni non erano avvezzi. Ma gli ebbe posto appena la mano sulla fronte che subito si scosse e sollevò gli occhi pieni d’angoscia.

Patrizio si sentì invaso da una tenerezza insolita per quell’essere debole e affettuoso che sembrava attaccarsi a lui come una di quelle esili pianticelle che non hanno la forza di sostenersi.

— Andiamo, Gildo, su! Non voglio che tu vegli così tardi; un’altra sera te lo proibirò.

Gli pareva di avere verso quel fanciullo dei doveri di padre; — lui che avrebbe riso delle cose più sacre, provava vicino a Gildo una specie di pudore misterioso e bizzarro.

— Levati, dunque, ti accompagnerò a casa. Sei ancora tutto sossopra perchè Augusto ti ha domandato che cos’è l’ipotenusa; a me, vedi, non importa affatto che tu non lo sappia. Se te lo domanda un’altra volta, digli che l’ipotenusa è una persona di spirito fra due imbecilli. Da bravo; dammi il braccio. Stai bene?

Gildo non rispose; parlava sempre pochissimo; oramai Patrizio era abituato a leggere ne’ suoi grandi occhioni neri, e gli occhioni neri di Gildo erano, quella sera, straordinariamente mesti.

Patrizio non disse più nulla. Silenziosi tutti e due s’avviarono, e giunti sulla porta del matricolino, Patrizio gli accese uno zolfanello perchè ci vedesse su per la scala.