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mia presenza, si mettevano in contegno. Aurora non mancava allora di rivolgermi qualche parola affettuosa, ma i suoi grandi occhi guardandomi non avevano lo splendore di scintille che vi avevo scorto prima, e la voce di mio padre dicendo: cara Paolina; non era così tremante e carezzevole come a dire: cara Dora.

La Betta veniva tratto tratto a trovarmi; piangeva quasi tutte le volte, e mi domandava, piena di mistero, se la mia matrigna mi faceva patire la fame — ella aveva sempre udito dire che le matrigne fanno patire la fame.

La rassicuravo pienamente su questo capitolo; aggiungevo per la pura verità che la mia era una matrigna molto buona.

Verso l’inverno, Aurora che non abbandonava quasi più la poltrona, ammonticchiava colla sua foga solita dentro un bel paniere nuovo tanti camiciolini guernite di trine, tante cuffiette ricamate coperte di nastri: il tutto così grazioso, così piccino che le domandai a che cosa dovevano servire.

— Ti preparo un bel fratellino, mi rispose festante; tu lo amerai?

— Ma egli mi amerà?

— Sì certo; tutti ti ameranno, purchè tu sii buona.