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Zia Bachisia aprì i suoi piccoli occhi di lucciola, ed anche lei si alzò; ma sapeva bene ciò che doveva accadere, quel giorno, e il giorno dopo e un anno e due e dieci anni dopo, per non scalmanarsi. Si vestì, intinse le mani nell’acqua e se le passò sul viso una sola volta; poi s’asciugò e s’avvolse la benda sul capo con somma cura.

— È tardi, — ripeteva Giovanna. — Dio mio, è tardi...

La calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di portar da mangiare all’accusato) mise tutto in un canestro e s’avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.

Le vie erano deserte; il sole sorgeva dall’Orthobene: e il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l’aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione, presso cui abitavano i Porru, conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati sull’orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l’aria piena di profumi selvatici, pensava alia sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.

La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e

Deledda. Naufraghi in porto. 2