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atto secondo 261


Plistene.   Nelle tue stanze

ti cerca invan; ma lo vedrai fra poco
qui comparir.
Ipermestra.   (Misera me!) Plistene,
soccorrimi, ti prego; abbi pietade
dell’amico e di me. Fa’ ch’ei non venga
dove son io; mi fido a te.
Plistene.   Ma come
posso impedir?...
Ipermestra.   Di conservar si tratta
la vita sua. Piú non cercar; né questo,
ch’io fido a te, sappia Linceo.
Plistene.   Ma l’ami?
Ipermestra. Piú di me stessa.
Plistene.   Io nulla intendo. E puoi
lasciarlo a tanti affanni in abbandono?
Ipermestra. Ah, tu non sai quanto infelice io sono!
          Se il mio duol, se i mali miei,
     se dicessi il mio periglio,
     ti farei cader dal ciglio
     qualche lagrima per me.
          È sí barbaro il mio fato,
     che beato — io chiamo un core,
     se può dir del suo dolore
     la cagione almen qual è. (parte)

SCENA IV

Plistene, poi Linceo.

Plistene. Di qual nemico ignoto

ha da temer Linceo? Perché non deggio
del suo rischio avvertirlo? E con qual arte
impedir potrò mai...
Linceo. Ipermestra dov’è?