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della città negli orecchi, lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata! tal quale come i medici ignoranti del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il povero diavolo si faceva lecito di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle! Gli avevano fatto comperare anch’essi un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive,