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barba, afferrò la stanga per metter pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto che vivo.

In mezzo a tanti dispiaceri s’era ammalato davvero. Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fare alla gente. Don Luca il sagrestano, il quale gli s’era ficcato in casa, quasi fosse già l’ora di portargli l’olio santo, pretendeva che don Gesualdo dovesse aprire i magazzini alla povera gente, se voleva salvare l’anima e il corpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinque bocche da sfamare, e la moglie sei. Mastro Titta, quand’era venuto a cavargli sangue, gli cantò il resto, colla lancetta in aria:

- Vedete? Se non mettono giudizio, certuni, va a finir male, stavolta! La gente non ne può più! Sono quarant’anni che levo pelo e cavo sangue, e sono ancora quello di prima, io!

Don Gesualdo, malato, giallo, colla bocca sempre amara, aveva perso il sonno e l’appetito; gli erano venuti dei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanti cani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amico che gli fosse rimasto. E la gente diceva pure che doveva averci il suo interesse a fargli l’amico, qualche disegno in testa. Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva la moglie e le figliuole, vestiti di nero tutti quanti, che annebbiavano una strada. Gli lasciava la sua ragazza per curarlo: - Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti. - Lavinia è un